La Giallo Dozza è la squadra di rugby del carcere di Bologna.
Max il loro allenatore, un vero allenatore di rugby,  oltre che un laureato in psicologia. Il che farà la differenza.

“La prima meta “, docufilm di Enza Negroni del 2016 narra senza retorica e sbavature sentimentalistiche, la nascita di una squadra di rugby che milita in categoria regionale C3, senza mai giocare fuori casa.
La determinazione dell’allenatore, quello della della direttrice del carcere che affianca il progetto, del responsabile della sicurezza, ma soprattutto dei giocatori, che cercano e trovano una motivazione che li proietti fuori dalla monotonia della vita carceraria, ma che li aiuti  anche  nella scoperta di una nuova solidarietà, fare squadra, riescono nell’intento.

Ci sono le difficoltà, le delusioni, la testardaggine dell’allenatore che non fa niente per illuderli, ma vuole il risultato. Che non è il punteggio sul campo, ma la nascita di una solidarietà fra i singoli e la compattezza della squadra. Ci si allena e si gioca con tutte le condizioni meteo, e si sa che Bologna non è una città calda d’inverno.

E a poco a poco, le mura  claustrofobiche che  precludevano la vista del cielo e soffocavano anche lo spettatore come i giocatori, sembrano aprirsi allo spettacolo sportivo quando agli allenamenti seguono le partite vere, con il pubblico di sorveglianti, ma anche di familiari e ospiti esterni, sugli spalti.
La squadra nasce, attraverso attese, delusioni, fatica, difficoltà, ma tanta voglia di farcela.
Per abbattere, almeno per quelle poche ore della partita, l’ostacolo che separa da una libertà, e che per alcuni porta il sigillo terribile del ‘fine pena mai’.

Max, Massimiliano  Zancuoghi , ora allenatore della squadra di Rugby dell’Alghero, lavora sul doppio binario dell’atletismo e della psicologia, col cesello del sentimento e con lo sprone di un metaforico pugno di ferro; li affronta a brutto muso, e li incoraggia fraternamente.

L’80% dei carcerati che hanno partecipato ad attività sportive, teatrali, creative o lavorative in carcere non hanno avuto una recidiva. E questo qualcosa significa.

Le riprese, durate quasi due anni, effettuate per evidenti necessità con una troupe ristretta al massimo di sole tre persone, seguono da vicino  le vicende sia della vita sportiva, sia di quella carceraria, con i momenti di tristezza, le lettere dei familiari, la preghiera (il 60% dei detenuti del Dozza sono stranieri e per lo più arabi, albanesi, rumeni, serbi), lo studio del Corano, la solitudine delle notti insonni.

Le partite, alla fine, rappresentano una liberazione, un momento atteso e stimolante che aiuta a sopportare la reclusione e fa sperare in un domani, per chi potrà, segnato da un destino finalmente migliore.

[Recensito dalla collaboratrice Manuela].

 

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