Mese: novembre 2018

Recensione “Disobedience”

Per il suo esordio in lingua inglese, l’apprezzato regista cileno Sebastian Lelio (quello di “Gloria”, che fu un buon successo di pubblico e critica pochi anni fa) ha scelto un quartiere periferico di Londra e una rigida e chiusa comunità ebrea ortodossa. Anche qui continua a raccontare storie al femminile, di donne alle prese con freni sociali, donne che vanno controvento, presentandoci Ronit (Rachel Weisz), fotografa di moda affermata che vive a New York. Dopo la morte del padre, rispettatissimo rabbino, la figlia torna da New York nella comunità ortodossa londinese per i canonici rituali “da trapasso” yiddish ma ritrova anche la sua ex fiamma (donna), adesso sposata al cugino Dovid (Alessandro Nivola), esperto della Torah, apprezzato e stimato nella gerarchia della comunità: si capisce presto che finirà….. “a schifiu”, inevitabilmente a triangolo, e non equilatero. Occorre scegliere: Rachel Weisz deciderà per lei e per l’amica Esti (Rachel McAdams): film molto bello, e le due Rachel in stato di grazia.

Il ritorno a Londra di Ronit la porta a tornare alle radici della sua famiglia, della sua formazione ma anche di quella frustrazione adolescenziale che l’ha portata a cercare e trovare atrove una strada completamente diversa. Sicuramente diversa sia dall’amica d’infanzia Esti, con cui da ragazza ha avuto la storia a cui abbiamo accennato, che dal cugino Dovid. Da ragazzi, i tre avevano costituito per anni un terzetto di giovani amici molto legati e combattuti fra lo slancio naturale dell’adolescenza e le rigide convenzioni della loro religione. Il tempo è passato, e i tre si ritrovano in un contesto e una fase delle rispettive vite molto diverso. Dovid è in lizza per il ruolo di nuovo rabbino capo, mentre le due Rachel si ri-scoprono non indifferenti alla ritrovata frequentazione intima e quotidiana.

Una volta tanto lo schema classico di qualsiasi dramma, cioè quello per il quale tutta la società e un intero mondo ipocrita di cui fanno parte i personaggi, impedisce il loro amore che sembra fregarsene e obbligarli a stare insieme, è un pretesto per guardare invece il coraggio della disobbedienza, che diventa trasgressione, che è il tema del film. “Disobedience”, disobbedienza quindi, verso una religione vissuta come continua messa in scena a uso e consumo dei vicini di casa/quartiere/comunità, una fede intesa come rituale rigido ma privo di vera devozione. La sessualita’ repressa negli anni è sempre pronta a manifestarsi, a dispetto di una vita vissuta come imposizione. La ritrovata intimità tra le due Rachel si manifesta anche con gesti che cercano di superare, materialmente, le convenzioni ipocrite della società, per vivere una passione ovviamente proibitissima, anche se siamo ai giorni nostri, anche se siamo a Londra.

Il film racconta questo, il senso profondo di rottura con il proprio ambiente, la difficoltà e il sacrificio che costa andare contro le regole di un microcosmo che vive di esse, e il regista rappresenta ciò anche con le immagini. Gli interni e gli esterni dove ha girato sono ordinati, calmi e tranquilli, questo quartiere residenziale e benestante non sembra nemmeno Londra tanto è assente quell’idea caotica della metropoli. Il quartiere e la comunità ebrea vivono in quello che sembra un piccolo centro in cui tutti conoscono tutti e il controllo sociale è capillare. Siamo a oggi, ma sembra l’America bigotta di quelle comunita’ che vivono fuori dal tempo, in modalità extra-vintage.

Rachel 1 e Rachel 2 rappresentano il classico tema della duplicità. Ronit è anticonformista, coraggiosa, e si ribella a una situazione imposta per prendere in mano la propria vita. Così facendo, negli anni, diventa oggetto di ammirazione e desiderio da parte della timida Esti, la quale invece sembra essersi arresa, aver raggiunto la pace dei sensi, rassegnata a (soprav)vivere da moglie modello con un uomo che rispetta, più che ama. Quanto a Dovid, anche lui è continuamente combattuto e sottoposto alle pressioni ed aspettative di un uomo di fede che agli occhi della comunità non puo permettersi di mollare di un centimetro.

Nonostante sia un film in cui la religione è il motore di tutto, e che tutto ordina, non siamo di fronte ad una protesta contro le religioni ma di una contro la ipocrisia della società. Tutto emana conformismo tranne queste due donne, le quali con calma invidiabile e sofferenza coltivano un amore clandestino. Che ricomincia a distanza di anni. Questa è la vera disobbedienza, non necessariamente quella che prende la forma del gesto eclatante, ma quella sommessa che vive nel lungo periodo.

 

La mistica del Negroni contro il mojito

Da un bello articolo di C. Longone pescato in rete qualche anno fa….

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Se ci fate caso c’è un nuovo rito di passaggio. Gli antichi riti si
leggono sui libri: i primi pantaloni lunghi, la prima visita al
casino, da quelle certe signorine, fra i lazzi degli amici già
esperti…
Il nuovo rito si beve nei migliori bar ed è un cocktail che ha quasi
novant’anni.
Passare dal mojito al Negroni, inventato nel 1919 dal conte omonimo,
significa lasciarsi alle spalle il vulgo profano, schiavo dello
zucchero come tutti i poppanti, per entrare nell’olimpo dei bevitori
che prediligono l’amaro. Come dire, in campo vinicolo, passare dal
Fragolino al Barolo.

Si sta parlando di un’iniziazione e quindi c’è bisogno di un luogo
iniziatico, ma mentre per la prima comunione va bene qualsiasi chiesa, per il primo Negroni non va bene qualsiasi bar.
L’Italia pullula di baristi sciatti che mettono troppo gin (risultato:
una bomba alcolica) o troppo Martini (risultato: una melassa
dolciastra), per non parlare dei bicchieri sbagliati, delle olive
marcette o delle patatine rancide.

L’ideale sarebbe andare a Firenze, dove il cocktail è nato, per
affacciarsi al bancone dello storico Caffè Rivoire di piazza della
Signoria. Qui il capobarman si chiama Luca Picchi ed è l’appassionato autore dell’unico libro scritto sull’argomento che ci sta tanto a cuore:
“Sulle tracce del Conte. La vera storia del cocktail Negroni” (edizioni Plan). La sua è una vita per la causa e quando prepara il magico
miscuglio appare quello che effettivamente è, il sommo sacerdote di una raffinatissima religione alcolica. Un culto misterico con risvolti
semisegreti.
La composizione del cocktail è stranota (1/3 London Dry Gin 1/3 Bitter
Campari 1/3 Vermut rosso) ma quasi nessuno conosce l’importanza del ghiaccio, che dev’essere tantissimo e freschissimo, di giornata,
altrimenti è pieno di microfessure che ne accelerano lo scioglimento.
E un Negroni annacquato mette tristezza.

Lando Buzzanca la settimana scorsa ha assaggiato il Negroni di Picchi e non credeva alle sue papille.
Ha costretto il nostro eroe a fargli dono del libro, per scoprirne i
trucchi. Per esempio: è bene che le bottiglie di gin, Campari e
Martini siano tenute in frigo così da avere un Negroni subito a bassa
temperatura, sempre per scongiurare lo scioglimento del ghiaccio. A
Firenze un altro Negroni perfetto si beve al Caffè Cibreo, in via del
Verrocchio.
Altrove in Italia se ne trovano di più che potabili all’Harry’s Bar di
Venezia, al Blue Bar di Riccione, al bar dell’Hotel d’Inghilterra a
Roma, al Gambrinus di Napoli, al Bar Basso di Milano, dove però
bisogna evitare il Negroni sbagliato (spumante al posto del gin),
inventato in loco nel 1972, che per un bevitore dell’olimpo di cui
sopra è una ripugnante eresia.
Elisabetta Rocchetti fra un set di Verdone e uno di Dario Argento beve
Negroni al Caffè della Pace, dietro piazza Navona a Roma. «Mi fa sentire più grande, lo prendevano i miei genitori». La stessa idea di iniziazione che si tramanda ha il sociologo Ivo Germano: «Il Negroni rappresenta gli anni Sessanta, l’Italia vera, viva e felice. Lo zio complice che ti portava al bar e ti offriva da bere, rimirando
la ragazza alla cassa».
Oggi c’è in Riviera romagnola un cuoco immaginifico che il Negroni lo
serve solido, in un piatto pazzesco che si chiama la Scatola dei
pesciolini perché consiste in un astuccio tipo scatola dei
cioccolatini, solo che all’interno anziché i gianduiotti ci sono
delizie di mare, come il minitoast di canocchia cruda e gelatina
appunto di Negroni. Il cuoco è Raffaele Liuzzi della Locanda Liuzzi di
Cattolica, località il cui nome ci è particolarmente caro (se si
chiamasse Islamica il Negroni vi sarebbe proibito).
Ma grandi cuochi e grandi baristi non bastano per garantire
l’esperienza mistica che questo cocktail può dare. Per l’estasi completa ci vuole una compagnia adeguata, insomma per
farla breve una donna. Che non sia però una donna da mojito, una di
quelle tipe bevo-ma-non posso, velleità tropicali e gusti puerili.
Dev’essere una donna da Negroni: di solito (esperienza personale) è
una ragazza magra che pesa la metà di te e contro ogni logica lo regge il doppio di te, accidenti.

 

Recensione “Nessuno come noi”

Festival del vintage in questo ripescaggio di atmosfere anni ottanta, quando il mondo e l’Italia voltarono pagina, in parte senza rendersene conto. Commedia romantica multigenerazionale, “Nessuno come noi” del regista Volfango De Biasi è un’idea interessante che poteva esserlo ancora maggiormente se certi nodi della trama fossero stati sviluppati meno in superficie.
La storia di “Nessuno come noi” corre su due binari paralleli: l’amore giovanile e quello adulto. All’ombra di una bella Torino, sobria e con colori tendenti al grigio come sempre, seppure in quegli anni marchiata come “ridente cittadina affacciata sulla FIAT”, lo studente Vince(nzo), voce narrante del film (attore Vincenzo Crea), si innamora quasi senza speranza della insopportabile Cate(rina) la quale però ovviamente gli preferisce il nuovo amico del cuore, l’infame Romeo, che è  figlio del docente universitario arrogante, bello e tenebroso Umberto (Alessandro Preziosi), che a sua volta tradisce la moglie con la bella Betty (Sara Felberbaum), la prof. di Vince, inizialmente abbacchiata e disillusa di suo causa naufragio del matrimonio, e quindi un po’ troppo “single per scelta”, ma poi non insensibile al fascino di Umberto, e quindi pronta a ricominciare con il docente che è quasi peggio del figlio. Incrocio di esistenze, genitori, figli, amanti, bisticci, passioni travolgenti, equivoci, mega-caos sentimentale: ma alla fine tutto si ricompone in vista del lieto fine, manco fosse un cinepanettone.

Alcune parti del film lasciano un po’ perplessi: qualche dialogo senza senso, padri che certificano passaggi all’età adulta senza molta logica, rincorse verso treni in partenza che vanno magicamente a buon fine.

Oltre a tutte queste pene amorose che in taluni momenti fanno scivolare il film da commedia a dramma, è divertente notare la passerella di alcuni simboli di quel decennio. Prima di tutto la cultura edonista dell’epoca; e cosi vediamo i due protagonisti amanti che, tra una crisi e l’altra, se la spassano immersi in bagni con schiume, candele, champagne. E poi musica anni ’80 (Spandau Ballet e “Teorema” di Marco Ferradini su tutti), griffe di moda, zainetti, piumini Moncler, musicassette, qualche progenitore di telefono cellulare dalle dimensioni preistoriche.

Luca Bianchini, autore del libro da cui è tratto il film, firma anche la sceneggiatura.

 

Recensione “Quasi nemici – L’importante è avere ragione”

Un professore di retorica della facoltà di Giurisprudenza a Parigi, un po’ razzista, prende di mira una studentessa di origini arabe: sarà la sua salvezza.

E’ da tempo che il cinema francese sforna storie di riscatto delle periferie più marginali nei confronti di tutto cio che è “centro”, ricchezza, potere. In questo “Quasi amici” del regista Yvan Attal tale riscatto avviene per mezzo del potere della parola e della sua capacità di convincere il prossimo.

Il prestigioso professore Pierre Mazard (Daniel Auteuil, in questo periodo onnipresente nei film francesi, specialmente le commedie, e quasi sempre ottimo protagonista), insegnante in questa importante facoltà di Diritto parigina, tradizionalmente orientate a destra, è il classico barone universitario che quasi nessuno vorrebbe come proprio docente: modi bruschi, tendente al cafone, sempre pronto alla provocazione e abbastanza pieno di pregiudizi nei confronti degli studenti francesi di seconda o terza generazione. Come Neila Salah (Camelia Jordana, già vista in “Due sotto il burqa”), origini nord africane e cresciuta a Creteil, una delle banlieu parigine, la quale studia e sogna di diventare avvocato. “La verità non importa, ciò che importa è avere sempre ragione” questo quel che Pierre Mazard cerca di insegnare ai suoi studenti e quindi anche a Neila. Fin dal primo giorno il rapporto fra prof. e allieva procede maluccio, con la ragazza che ha però il carattere per rispondere alle provocazioni del docente. Ma i loro destini si incroceranno ancor di più quando un infelice scontro verbale fra i due, causato da lui ovviamente, con possibili conseguenze disciplinari sullo stesso docente, spingerà il preside, per evitare provvedimenti più gravi, a imporgli di diventare il coach della ragazza nella preparazione in vista di un concorso di eloquenza che si terrà di  a poco. Cinico, determinato e preparato come è, in effetti, il prof. rappresenta per la ragazza la guida migliore. A questo punto della storia comincia quindi il prevedibile duetto tra i due protagonisti, divertente e ironico, in un’incessante sfida a colpi di battute, dialoghi taglienti e lontani dal politicamente corretto, e i due piano piano si troveranno a dover superare i pregiudizi che nutrono l’uno per l’altra. La parola e il suo potere hanno un ruolo fondamentale per difendere se stessi e gli altri.

Ovviamente più che l’esito del concorso di eloquenza, l’obiettivo del film è dimostrare che si puo imparare ed attuare la convivenza tra periferie e centri del mondo, tra i nord e i sud, abbandonando i pregiudizi e limitandosi ad affrontare ogni singolo individuo per quello che è, rispettando la sua singolarità a prescindere dal colore della pelle, dal gruppo etnico di appartenenza o altre categorizzazioni. E che l’unica arma di combattimento può e deve essere l’arte della parola, che ti fa passare dalla parte della ragione, se sei bravo ad usarla, anche quando in realtà stai nel torto. Non conta solo ciò che si dice ma anche, e certe volte soprattutto, come lo si dice. E perciò tutto si può dire, bisogna solo vedere quali argomentazioni si portano. Una brillante lezione di retorica anche per noi spettatori, raccontata attraverso questo conflittuale rapporto professore-allieva. Conflittuale fino a un certo punto, perchè ben presto tra i due nascerà un accenno di feeling che permetterà a Neila, incoraggiata dal mentore tanto tirannico quanto benevolo, di tuffarsi nel mondo dei giochi di parole, della retorica e dell’eccellenza.