È “La grande bellezza” di Paolo Virzì.
Così potremmo sintetizzare l’ultima fatica del regista livornese, alle prese con una descrizione della città di Roma, e dell’ambiente del cinema italiano, che possono lontanamente ricordare il film di Sorrentino vincitore dell’Oscar pochi anni fa. Oltre alla trama ambientata nel mondo del cinema, è la fotografia, soprattutto, curata con grande attenzione, con la vista di terrazze, ristoranti con giardino, monumenti, scorci della città, ripresi con un particolare angolo e con una certa luce, dell’alba o del tramonto, che può indurre al parallelo e che anche qui, con un po’ di sforzo, può rappresentare un omaggio di Virzì a Roma e al cinema.

La scena memorabile: l’auto vola dentro il Tevere mentre l’Italia perde la semifinale mondiale.
Infatti, quella sera del 3 luglio 1990, mentre a Napoli l’Italia sbaglia l’ultimo calcio di rigore e viene quindi eliminata dall’Argentina di Maradona nella semifinale del mondiale di calcio, facendo sfumare quindi l’occasione epocale di disputare una finale mondiale in casa, a Roma, un’auto precipita nelle acque del Tevere scavalcando il parapetto. Quella sera 27 milioni di persone sono davanti alla TV in tutta Italia. Tra questi, nel film, una piccola folla è assiepata davanti allo schermo gigante di un bar all’aperto sul lungotevere e, talmente presi dalla suspence per la famosa “lotteria dei rigori”, mentre il telecronista RAI Bruno Pizzul pronuncia la frase entrata nella piccola storia della televisione (“Sono immagini che non avremmo mai voluto commentare”), quasi nessuno si accorge del tragico tuffo della macchina nel fiume. Comincia così una specie di giallo, molto leggero, a tratti comico e farsesco, che il regista usa come pretesto narrativo per raccontare la sua Roma anni ’90, e soprattutto il crepuscolo del mondo di un cinema oggi defunto. Nel racconto, scandito cronologicamente dai 25-30 giorni della durata del campionato mondiale di quell’anno, Virzì mescola finzione, realtà e materiale autobiografico, tra effetto nostalgia e ironia tagliente, portando in scena tre giovani arrivati nella Capitale (una dei tre già ci viveva) per sfondare nel mondo del cinema.
A bordo dell’auto volata giù c’è il cadavere del produttore cinematografico Leandro Saponaro (Giancarlo Giannini); nella tasca del morto viene rinvenuta una polaroid che lo ritrae a cena in un ristorante insieme con la sua fidanzata oca (Marina Rocco), che infatti fa la ragazza Coccodè in uno dei programmi TV dell’epoca, e tre giovani aspiranti sceneggiatori: Luciano Ambrogi (Giovanni Toscano), Eugenia Malaspina (Irene Vetere) e Antonio Scordia (Mauro Lamantia). I tre ragazzi si sono conosciuti solo poche settimane prima, esattamente il giorno della partita inaugurale del campionato mondiale, in occasione di un premio letterario di cui sono i finalisti. Del crimine vengono dunque inizialmente accusati i tre amici, i quali portati in caserma dai Carabinieri, davanti al Comandante (Paolo Sassanelli) cominciano a ripercorrere i fatti accaduti in quelle magiche quattro settimane romane di giugno-luglio 1990, in un amarcord del sottobosco del mondo del cinema italiano, tra cene da “Checco er carrettiere”, feste, agenti, lavoro forsennato per rispettare le scadenze, incontri con sceneggiatori, produttori, registi, fino al tragico epilogo di quella notte.
Dopo l’esaltazione iniziale, i tre giovani rimarrannno delusi e scottati dal baraccone romano e del cinema italiano. Quel cinema, descritto con sfumature quasi felliniane,  fatto di geni e cialtroni, Palme d’oro a Cannes e B-movie (o anche C-D-ecc..-movie), jet-set e personaggi grotteschi, vecchi marpioni che intrallazzano e giovani idealisti sognanti che vorrebbero cambiare il cinema, l’Italia e il mondo. Qualcuno ce la fa, i tre protagonisti del film, no, e devono abbandonare il loro sogno.
Nel film molti famosi personaggi del mondo del cinema italiano sono evocati o chiamati con il loro vero nome, altri hanno nomi di fantasia ma in alcuni di loro si riconoscono personaggi reali. E lo spettatore più smaliziato e cinefilo si divertirà nel classico giuoco del “Who is who?”, nel riconoscere i grandi nomi della storia del cinema italiano che il regista ha piazzato nel film, per elaborare il suo racconto di cinema, o di come dovrebbe essere il cinema, con autori che siano meno auto-referenziali e imparino ad essere anche un po’ spettatori, come nella frase cult del film pronunciata dal Comandante dei carabinieri, rivolto ai tre pivelli non simpaticissimi: “Volete fare gli sceneggiatori, ma non sapete fare gli spettatori”.

Nel cast anche Roberto Herlitzka, Ornella Muti, Giulio Scarpati.
Un bel film. Da vedere con gli amici ormai cresciuti, per ricordare con un pizzico di nostalgia gli anni ’90. Da non vedere se non si apprezza l’umorismo tipico di Virzì, da apprezzare invece se si ama il cinema quando parla di cinema, con ironia e disillusione.