L’infanzia disagiata e poi la maturita’ agonistica della pattinatrice Tonya Harding che, dopo il triplo salto mortale on ice, scivola come mandante dell’aggressione alla rivale: perde la carriera. Più che un film sportivo, la cronaca di un’America anni ’80 trash e amorale, dove l’autore ha ben documentato i fatti. Brava Margot Robbie, ma insuperabile la mammina Allison Janney, Oscar come migliore attrice non protagonista.
Non è  il solito film sul campione sportivo. Non è tennis, come da recente cinematografia ma il meno raccontato, al cinema, pattinaggio artistico. “Tonya” è un film biografico diretto da Craig Gillespie, in cui l’attrice Margot Robbie veste i panni del personaggio molto controverso, la pattinatrice Tonya Harding, eccellente atleta poi finita nella spirale di uno scandalo, quando viene accusata insieme all’ex marito dell’aggressione alla rivale Nancy Kerrigan, costretta poi a ritirarsi dalla competizione. La pellicola ci trascina quindi in un viaggio alla scoperta di Tonya, da quando era solo una bambina di quattro anni con talento, fino ai fatti di cronaca che hanno devastato la sua carriera.
All’inizio il regista comunica allo spettatore che il film si basa su interviste “totalmente vere, totalmente contraddittorie, prive di ironia”. Anche se di ironia, forse involontaria, ne viene fuori, eccome, da queste interviste.
Tonya, come detto, è Tonya Harding, figlia di bianchi poveri e cafoni d’America, sin da bambina obbligata più che avviata al pattinaggio dalla ferocissima madre. Fu la prima pattinatrice ad esibirsi e riuscire nel famigerato triple axe, la prima ad insultare i giudici di gara se non le riconoscevano il giusto merito nelle loro votazioni, e ad insultare le avversarie a prescindere. L’accusa del fatto di cronaca che segnera’ la sua vita è  quella di avere organizzato l’aggressione con relativa spaccata di rotula alla rivale Nancy Karrigan, per azzopparla alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Lillehammer 1994.
Il rischio di film come “Tonya”, in cui si adotta il punto di vista del “cattivo” per raccontare la sua storia e gli eventi in cui è coinvolto, è di immedesimarsi troppo con il personaggio e finire col cedere all’istinto di non crederlo colpevole, o comunque di giustificarlo troppo, solo perchè ci siamo sentiti coinvolti nella sua storia; ma non è il caso di questo film. I protagonisti sono politicamente scorretti, imprecano, si picchiano e le bugie che raccontano anche a loro stessi vengono smascherate dalle immagini. Pur provando compassione per lei in certi tratti della storia, non ci sono dubbi sul coinvolgimento di Tonya nella triste vicenda, nè delle vere scusanti per quel che ha fatto, anche se la narrazione si preoccupa di mostrarci il suo difficile passato, il fatto che fosse vittima di persone che forse non avevano di lei la giusta considerazione. “Tonya”, alla fine, pur non essendo un capolavoro di cinema, si dimostra un prodotto interessante, facile da seguire e gustare. È la storia di una donna che ha commesso degli sbagli e che, a causa di questi sbagli, è stata severamente punita.
Ottima l’interpretazione dell’attrice Margot Robbie, davvero credibile nella interpretazione di questa donna complicata, e in questo film quasi irriconoscibile se raffrontata con la sofisticata donna di Leo Di Caprio in “The wolf of Wall Street”. La mamma despota come detto è Allison Janney, bravissima nel recitare la parte di una donna esigente e scostante, un personaggio detestabile dai modi spicci e poco ortodossi (eufemismo). Il marito di Tonya è l’attore Sebastian Stan, il cretino che fa minacce telefoniche credendosi quasi uomo FBI è Paul Walter Houser.

1 commento su “Recensione “Tonya””

  1. L’America di Trump prima di Trump.
    Tonya, lei proprio, nella realtà, fa tenerezza. Una bambina vessata da una madre come tante, che fa pagare alla figlia i suoi insuccessi e le sue frustrazioni. Tonya è ignorante, si nutre male, soprattutto se si considera che è un’atleta; è violenta, maleducata, cafona. Si veste peggio, i costumi di gara se li cuce da sola, col pessimo gusto che le viene dal vivere ai margini di una America profonda fatta di locali fast-food per camionisti, ceffoni dati e resi, e poco, pochissimo affetto. La madre, fingendosi remissiva e conciliante, cerca di strapparle dolosamente una confessione da propinare ai giornalisti per avvalorare la tesi dell’attentato alla compagna. Tradita da tutti, anche dal laccio del pattino che la scaraventa nella disperazione più nera, dopo i trionfi del triplo axel, Tonya abbandona a 23 anni una carriera che sarebbe stata fulgida, anche perché il suo era un pattinaggio innovativo, non di maniera, ma sicuro,atletico e muscolare, senza fronzoli e sdolcinature. Ma come sostiene il responsabile della delegazione che non vuole mandarla alle Olimpiadi, lei “non rappresenta quella America che noi vogliamo portare in giro”, fatta di famiglie perfette, ragazze sempre sorridenti, ben pettinate, ben vestite e ben truccate, accattivanti e leziose che finiranno la loro carriera a Holiday on Ice.
    Un destino terribile, al di là dell’ombra del sabotaggio,
    per qualsiasi sportivo che creda nelle proprie facoltà.
    “Tonya” ha una regia un po’ troppo ballerina, fra interviste riprodotte ricalcando quelle vere, sessioni di botte date e prese, ossessioni materne e del suo entourage spionistico da barzelletta, che sarà poi la sua sfortuna. Tecnicamente perfetto ( la testa dell’attrice che non pattina, viene sostituita in postproduzione per render credibili le scene sul ghiaccio), i montaggi sono impeccabili, la scrittura un po’ meno. Un altro film degli Oscar di quest’anno che non mi ha convinta troppo, al di là delle ottime protagoniste femminili.

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