Mese: aprile 2018

Recensione “Contromano”

La nostra amica, inviata speciale e critica cinematografica Manuela ha visto per noi questo film. E qui ce lo recensisce.

*********************************************

Antonio Albanese, come Corrado Guzzanti, si distingue dalla maggior parte dei comici perché é un genio. Soprattutto nel creare quei personaggi eccessivi e surreali come maschere, che però hanno dentro tanto di quella verità ( il Ministro della Paura…) da obbligarci ad una autocritica tutt’altro che comica.
Nelle regie non sembra però avere la medesima mano felice. Cosi’ avviene in “Contromano”.
La storia é gentile e garbata, perché nonostante il personaggio interpretato da Albanese esibisca ogni tanto un piglio un po’ leghista, in fondo é una persona buona e generosa.
E lo dimostra con la manifestazione e poi la realizzazione di un progetto che, come dice lui stesso, dovrebbe coinvolgerci tutti: riportare uno ad uno, con le nostre auto, tutti gli emigrati in Africa. Cosa che a lui riesce di fare, alla fine, con un po’ di difficoltà e di accadimenti che gli remano contro, riaccompagnando in Senegal l’emigrato che gli fa una concorrenza spietata vendendo calze di “filo di Svezia” a quattro soldi, proprio sulla porta del suo blasonatissimo negozio di intimo nel centro di Milano.
È nella descrizione del rientro in Africa che la sceneggiatura vacilla un po’. Qualche lungaggine di troppo, qualche episodio forzato, qualche personaggio tirato per i capelli.
La conclusione comunque (e non dirò di più per non rovinare il finale a chi lo vedrà) é sorprendente, ma non moraleggiante. Un atteggiamento che in Albanese sarebbe fuori luogo, e che nello scrivere un nuovo capitolo per la vita del suo personaggio, ci offre delle indicazioni non ovvie e che non puzzano di sacrestia, ma ci restituiscono la generosità di una persona che la solitudine, nonostante tutto, non ha inasprito.
Nel complesso un film godibile e amabile come il suo protagonista- regista, per passare due ore serene.

Recensione “Tonya”

L’infanzia disagiata e poi la maturita’ agonistica della pattinatrice Tonya Harding che, dopo il triplo salto mortale on ice, scivola come mandante dell’aggressione alla rivale: perde la carriera. Più che un film sportivo, la cronaca di un’America anni ’80 trash e amorale, dove l’autore ha ben documentato i fatti. Brava Margot Robbie, ma insuperabile la mammina Allison Janney, Oscar come migliore attrice non protagonista.
Non è  il solito film sul campione sportivo. Non è tennis, come da recente cinematografia ma il meno raccontato, al cinema, pattinaggio artistico. “Tonya” è un film biografico diretto da Craig Gillespie, in cui l’attrice Margot Robbie veste i panni del personaggio molto controverso, la pattinatrice Tonya Harding, eccellente atleta poi finita nella spirale di uno scandalo, quando viene accusata insieme all’ex marito dell’aggressione alla rivale Nancy Kerrigan, costretta poi a ritirarsi dalla competizione. La pellicola ci trascina quindi in un viaggio alla scoperta di Tonya, da quando era solo una bambina di quattro anni con talento, fino ai fatti di cronaca che hanno devastato la sua carriera.
All’inizio il regista comunica allo spettatore che il film si basa su interviste “totalmente vere, totalmente contraddittorie, prive di ironia”. Anche se di ironia, forse involontaria, ne viene fuori, eccome, da queste interviste.
Tonya, come detto, è Tonya Harding, figlia di bianchi poveri e cafoni d’America, sin da bambina obbligata più che avviata al pattinaggio dalla ferocissima madre. Fu la prima pattinatrice ad esibirsi e riuscire nel famigerato triple axe, la prima ad insultare i giudici di gara se non le riconoscevano il giusto merito nelle loro votazioni, e ad insultare le avversarie a prescindere. L’accusa del fatto di cronaca che segnera’ la sua vita è  quella di avere organizzato l’aggressione con relativa spaccata di rotula alla rivale Nancy Karrigan, per azzopparla alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Lillehammer 1994.
Il rischio di film come “Tonya”, in cui si adotta il punto di vista del “cattivo” per raccontare la sua storia e gli eventi in cui è coinvolto, è di immedesimarsi troppo con il personaggio e finire col cedere all’istinto di non crederlo colpevole, o comunque di giustificarlo troppo, solo perchè ci siamo sentiti coinvolti nella sua storia; ma non è il caso di questo film. I protagonisti sono politicamente scorretti, imprecano, si picchiano e le bugie che raccontano anche a loro stessi vengono smascherate dalle immagini. Pur provando compassione per lei in certi tratti della storia, non ci sono dubbi sul coinvolgimento di Tonya nella triste vicenda, nè delle vere scusanti per quel che ha fatto, anche se la narrazione si preoccupa di mostrarci il suo difficile passato, il fatto che fosse vittima di persone che forse non avevano di lei la giusta considerazione. “Tonya”, alla fine, pur non essendo un capolavoro di cinema, si dimostra un prodotto interessante, facile da seguire e gustare. È la storia di una donna che ha commesso degli sbagli e che, a causa di questi sbagli, è stata severamente punita.
Ottima l’interpretazione dell’attrice Margot Robbie, davvero credibile nella interpretazione di questa donna complicata, e in questo film quasi irriconoscibile se raffrontata con la sofisticata donna di Leo Di Caprio in “The wolf of Wall Street”. La mamma despota come detto è Allison Janney, bravissima nel recitare la parte di una donna esigente e scostante, un personaggio detestabile dai modi spicci e poco ortodossi (eufemismo). Il marito di Tonya è l’attore Sebastian Stan, il cretino che fa minacce telefoniche credendosi quasi uomo FBI è Paul Walter Houser.

Recensione “Un sogno chiamato Florida”

Anche l’America adesso ha il suo neorealismo, pur senza avere De Sica o Rossellini.

Foto di gruppo di tre ragazzini alla periferia di Orlando, in Florida, in un intreccio continuo tra realtà e immaginazione, tra la vita quotidiana “reale” e quella che si vorrebbe vivere. Il tutto a due passi dal mondo incantato di DisneyWorld, dove vive questa umanità invisibile, dimenticata, senza tetto né legge.  È il mondo di “Un sogno chiamato Florida” di Sean Baker, regista più indie che mai, autore di questo film particolarissimo. Dove un universo di adulti e di bambini vive ai margini del parco divertimenti più grande del mondo. Poesia ed emozioni in un cinema di assoluta spontaneità e di umane illusioni che pare costruito dal vero.

Il mega-parco DisneyWorld è rigurgitante di famiglie e turisti. Poco distante, alla periferia del nulla, separato da una vegetazione incolta e da un progetto edilizio andato a male, sorge il Magic Castel Hotel, dai colori pastello tipici del quartiere Art Deco’ di Miami, a metà strada tra un albergo di terzo ordine e un residence per inquilini di passaggio che a stento riescono a pagare l’affitto. Lo gestisce in modo umano il manager/portiere/capo condomino Bobby (l’attore Willem Dafoe) che deve giocoforza avere a che fare quotidinamente con una umanità varia e molto problematica. In questa specie di condominio di case di ringhiera, diremmo se fossimo a Milano, si svolge la vita molto al limite di Halley, come il nome della cometa, e come la cometa appare luminosissima per brevi momenti per poi scompare nel buio della propria anima (strepitosa l’attrice Bria Vinaite): capelli verdi, un po’ “scunchiuruta” direbbero in Sicilia (sgangherata), molto tatuata. Giovane donna ribelle senza prospettiva. Ragazza madre con una figlia di sei anni, Moonee, la quale passa le giornate facendo monellerie e procurandosi guai con i suoi amichetti, facce da schiaffi e impertinenti come lei. Le vite di questi tre bambini continuano ad essere raccontate nel film, mentre la mamma di Mooney, in presenza o meno della figlia, continua a mettersi in altri guai. A volte per necessità (esempio, per racimolare soldi per pagare l’affitto), a volte per regalare alla figlia momenti di pseudo felicità (esempio, quando la porta ad abbuffarsi in ristoranti di lusso o almeno in decorosi diners), a volte per puro gusto nel cacciarsi nei guai. Alla voce “per necessità” rientra pure il fatto che Halley per sbarcare il lunario e pagare l’affitto al paziente Bobby, riceve in casa qualche uomo, magari con la bambina in casa e tristemente nascosta nella vasca da bagno. Cosa che non sfugge ai soliti vicini pettegoli che denunciano lo strano andirivieni di estranei fino a che non si presentano poliziotti e assistenti sociali con l’obiettivo di strappare Moonee alla madre e darla in affidamento. E qui comincia la parte piu’ drammatica del film ed il finale che si prepara è un altro momento lirico ed intensissimo del racconto.

La scena finale del film è stata girata a Disneyworld, con un iPhone, all’insaputa della direzione del parco.

Film in bilico tra due dimensioni, il vero e il falso, l’autentico e il contraffatto, il reale e il desiderato. Da una parte il Magic Castle Hotel con i suoi colori vivaci ma con il silenzio e la tristezza del cuore di chi ci vive, dall’altra DisneyWorld con la gioia, i rumori e le grida dei bambibi e dei turisti visitatori. In mezzo l’esistenza allegramente tribolata di Halley. Bellissima la fotografia e i colori. E poi gli attori, con Willem Dafoe giustamente candidato allo Oscar per il suo Bobby, che deve fare esercizio di umanità a piene mani per tenere a bada e gestire la povertà materiale e culturale diffusa di un quotidiano quasi fatalistico; e poi la stralunata Halley / Bria Vinaite e con la piccola Mooney, impunite e meravigliose icone di un film da vedere e ricordare.

 

Recensione “Un amore sopra le righe”

Dobbiamo dire che a questo blog capita ogni anno di essere colpito positivamente da almeno un film, magari indipendente, fuori dai canonici circuiti di gradimento quasi obbligati, cioé da un film che non stia in quel gruppetto di film oggettivamente ottimi (pur sapendo bene che il gusto nell’arte è personale, quindi soggettivo), a volte capolavori, che ogni stagione porta con sé. Bene, questo film è uno di questi. Diversi sono i film che vengono in mente assistendo a questa storia, ma é impossibile non pensare a “La versione di Barney”, romanzo di Mordecai Richler, e poi film con Paul Giamatti. Impossibile non accostare la Miriam del grande perduto amore di Barney, alla Sarah (attrice Doria Tillier), moglie di Victor Adelman (interpretato dallo stesso regista Nicolas Bedos): qui musa e scrittore di successo, insieme per 45 anni. Storia d’amore e di libri ambientata in Francia nell’epoca Mitterand (e altri Presidenti), scritta, diretta e recitata da Nicolas Bedos, all’esordio alla regia. Quasi un Woody Allen in trasferta a Parigi: famiglia colta e borghese, moglie e amanti, lo psicanalista, amore e odio di coppia. Una storia d’amore di quasi mezzo secolo si lascia alle spalle mille fatti, sfumature, insofferenze, gioie. Tutto questo è raccontato nel film.

“Un amore sopra le righe” è una lunga avventura amorosa carica di vibrazioni, emozioni e contrasti. A raccontare la storia di questa coppia ad un giornalista, subito dopo la morte di Victor, è proprio Sarah, in vena di rivelazioni e nostalgie: partendo in flashback dal loro primo incontro nel 1971, lei studentessa d’origini modeste, lui di famiglia alto locata e un po’ con la puzza sotto il naso, e attraversando quasi mezzo secolo di vita francese, turbolenze, tradimenti e passioni. La politica e la società francesi stanno sullo sfondo, con le epoche di Giscard D’Estaing, Mitterrand, Chirac a fare da contraltare socio-politico alla vicenda di sentimenti privati della coppia lungo i decenni che si susseguono. C’è l’innamoramento degli anni ’70, gioiosi e pieni di entusiamsmo, con l’impegno politico dei protagonisti che si inserisce nella loro passione privata. Poi l’edonismo (Reganiano?) degli anni ’80, con il benessere economico e il premio letterario conquistato da Victor. I tradimenti di lui sono una costante del bambinone capriccioso e viziato che ancora è, donnaiolo e dotato di super ego, in realtà persona fragile. Poi gli anni ’90 con fasi di separazione alternate a ritorni di fiamma, e poi si va verso l’epilogo.

Nella prima parte della storia, Sarah è, o appare, un po’ succube del compagno, spaventata che lui possa tradirla, timore non del tutto infondato come abbiamo visto, e terrorizzata al pensiero che lui possa lasciarla. In questa fase del film si assiste alla parte piu’ passionale del loro amore, vissuto in stile bohemien in un appartamentino nel centro di Parigi, durante gli anni delle barricate in strada e le manifestazioni di piazza in Francia negli anni post ’68. Quando la fama, la fortuna letteraria di lui, la ricchezza e una casa lussuosa prendono il sopravvento sull’originale ma molto piu’ romantico anonimato di coppia, questi eccessi cambiano la vita della coppia. Specie quella di Sarah, diventata tanto borghese da far imbestialire il suo ancora anticonformista compagno. E lei, sebbene incinta, presa anche da varie insicurezze e dalla gelosia per le continue scappatelle di lui, per ritrovare tracce di sicurezza si mette a sniffare come un aspirapolvere, poi si rimette in sesto ma qui comincia un’altra storia, sempre nel segno del loro amore irreversibile e sempre nei loro ruoli di ispiratrice e artista; ma adesso le situazioni si invertono, è lui a soffrire di gelosia quando è lei a guardarsi intorno, è lui a diventare insicuro e depresso per l’attenuarsi di successo con pubblico e critica letteraria. Fino all’inevitabile fase del tramonto delle loro vite, con il malinconico appannamento mentale di lui, colpito dall’alzheimer in un epilogo tenero e crudele, altro forte richiamo a “La versione di Barney”.

Abbiamo detto prima che la sceneggiatura è dello stesso regista Nicolas Bedos, in realtà la storia è stata scritta dalla coppia Bedos – Tillier, i quali oltre ad essere gli ottimi protagonisti del film sono anche compagni nella vita. Come se realtà e finzione riuscissero a manifestarsi e fondersi attraverso l’esperienza cinematografica, mettendo in scena tra pubblico e privato una lunga storia di coppia. La storia dei signori Adelman, per citare il titolo originale, è una torrenziale sequenza di riti di passaggio nell’ultimo quarto del secolo scorso, raccontati con una sincerità che fa emergere la fragilità dei personaggi, la loro lotta quotidiana con il talento, con la paura di averne meno del partner. Specie per Sarah, costretta a sacrificare il suo, per un capriccioso marito che forse non ha neanche il talento che gli si riconosceva ad inizio carriera…..

 

Recensione “Lady Bird”

Esordio alla regia di Greta Gerwig, presunta star del cinema indipendente americano, con la storia di una teenager in conflitto con la madre, sullo sfondo dell’America di provincia, nella città di Sacamento, con amici e parenti. Il sogno americano visto da una giovanissima.

Premessa: un film, ambientato nel 2002, che comincia con la seguente battuta (parola più, parola meno) della giovane protagonista: “Che depressione in questo posto! La cosa più eccitante di questo periodo è che siamo in un anno palindromo”, non può non partire con un giudizio positivo. Ma poi…. “Lady Bird” è arrivato con l’onda che precede i grandi capolavori, prima la standing ovation alla sua presentazione al Festival di Toronto, poi l’uscita americana, il record di recensioni positive, infine le cinque nomination agli Oscar, tra cui quella principale come miglior film. Ora, come qualcuno possa soltanto pensare di mettere sullo stesso livello di partenza (cioè le nominations) film come “La forma dell’acqua”, “Tre manifesti ecc…”, “The phanthom thread”, con un film normale come questo, resta uno dei grandi misteri. “Lady Bird” si presenta come uno dei film fondamentali della stagione, ma è subito evidente come non possa reggere questo genere di aspettative: non è particolare, grandioso, delicato o originale. È un film discreto ma estremamente ordinario.

La storia è quella di una pseudo-autobiografia della stessa regista Greta Gerwig, cresciuta a Sacramento nei primi Duemila tra sogni di grandezza, cultura, grandi città e indipendenza. Nel film il personaggio si chiama Christine (l’attrice Saoirse Ronan) che ha scelto per sé il nickname Lady Bird. Christine / Lady Bird fa parte di un gruppo teatrale, soffre la sua famiglia che ritiene poco stimolante dal punto di vista culturale, e non vede l’ora di finire la scuola per andarsene da un luogo che sente penalizzante per la sua crescita, destinazione il college a New York. Invece che limitarsi a raccontare le peripezie amorose e di vita della sua protagonista, la regista vuole rappresentare una magnifica parabola intellettuale, in cui lo spunto dato dalla solita volontà di un’adolescente di non somigliare ai propri genitori e distinguersi per affermare se stessa, diventa poi messaggio per arrivare a parlare dei grandi problemi della vita di questo inizio millennio. Obiettivo che tuttavia il film è ben lontano dal raggiungere. Quello che la regista sembra ignorare è che spesso film di questo genere, che raccontano peripezie di giovanissimi americani, magari più commerciali di questo, sono portatori dell’identico messaggio ma senza gloriarsene troppo.

“Lady Bird” è immediatamente identificabile come un tipico film del cinema americano indipendente contemporaneo, quello in cui i protagonisti positivi sono le voci fuori dal coro (anche se dicono solo fesserie, per stare fuori dal suddetto coro), isolati dalla massa e da cui cercano in ogni modo di allontanarsi nonostante il mondo spinga per l’omologazione; sono quelli che hanno il carattere e l’umore perennemente finto-insoddisfatto e amicizie poco convenzionali (anche se questi amici sono più cretini di quelli che si troverebbero dentro la vituperata massa); sono migliori degli altri solo perché diversi e non omologati.

Come detto, “Lady Bird” è un film autobiografico ma in un modo infantile tipico degli esordi: la regista racconta più o meno la sua storia ma lo fa in un modo che suggerisce al pubblico che si stia rappresentando meglio di come fosse.

 

 

Recensione “Benvenuti a casa mia”

Progressisti con il “sedere” degli altri, a parole ma non nei fatti. Prevedibile, ma istruttiva, commedia farsa francese su uno scrittore radical chic che accoglie in casa un gruppo rom che gli sfascerà giardino, piante, mobili e famiglia.

L’attore Christian Clavier indossa i panni di un docente universitario, intellettuale di sinistra ma con mega villa con piscina nel quartiere giusto alle porte di Parigi, con servitù extra-comunitaria, e pasteggia spesso ad aragosta e champagne. Quindi predica e poi razzola esattamente nel modo in cui fanno tanti intellettuali di sinistra non solo in Francia (il personaggio protagonista vuole essere una parodia di Bernard Henry Levy?), ma anche in Italia. Vedi il gruppone di illuminati di Capalbio, che recentemente non hanno voluto accettare un solo migrante nel loro buen ritiro, pur passando il loro tempo a dare del razzista a chi prova a proporre qualche misura di regolamentazione del biblico problema.

La regia del film è di Philippe de Chauveron. Durante un dibattito televisivo per promuovere il suo libro, pieno di tesi ipocrite sull’accoglienza, il protagonista viene provocato da un suo rivale di estrema destra ad accogliere in casa una famiglia Rom. Lui ovviamente a parole fa finta di accettare, ed incautamente dà il suo indirizzo in TV. Poi appena uscito dallo studio televisivo, convinto di avere trionfato nel duello verbale contro il suo rivale fascista-classista-razzista, va a festeggiare la sua performance televisiva com moglie e sodali nel solito ristorante extra lusso. La sera, tornato nella sua magione, squilla il citofono: è una famiglia di Rom che ha seguito il dibattito in televisione, lo ha preso in parola e quindi pretende di installarsi a casa sua. E cosi scatta il panico nella famiglia dei presunti progressisti, ma sempre in nome del loro adorato politicamente corretto e intravvedendo ulteriori vantaggi di immagine da monetizzare quanto prima, i padroni di casa acconsentono che i rom si piazzino con la loro roulotte in giardino. Pian piano i Rom, fracassoni che in pochi giorni riescono a distruggere quasi tutto quello che toccano, non si limitano al giardino ma superano anche la soglia di ingresso della casa, e qui continuano le scene di finta accoglienza (spaventata) dei borghesi illuminati.

“Benvenuti a casa mia” ha una dose di perfidia non comune nel genere, non si ferma davanti al politicamente corretto e attacca frontalmente i bobo (borghesi bohémien), così ossessionati dalla tutela della loro sfera intima, ma spiazzati e disarmati quando si tratta di passare all’azione. Il film è una satira sul moralismo di chi si crede senza peccato e superiore agli altri, in cui tutti trovano il modo per sentirsi migliori degli altri, in cui ogni gruppo sociale ne trova un altro più in basso nella piramide su cui scaricare le frustrazioni subite da quello appena più in alto. Vedi il maggiordomo indiano che insulta quegli zozzoni dei Rom, rifiutando di servirli in giardino a bordo piscina. Insomma, una totale confusione in cui si parla senza pensare, una vera metafora dell’epoca dei social media.