Anche l’America adesso ha il suo neorealismo, pur senza avere De Sica o Rossellini.

Foto di gruppo di tre ragazzini alla periferia di Orlando, in Florida, in un intreccio continuo tra realtà e immaginazione, tra la vita quotidiana “reale” e quella che si vorrebbe vivere. Il tutto a due passi dal mondo incantato di DisneyWorld, dove vive questa umanità invisibile, dimenticata, senza tetto né legge.  È il mondo di “Un sogno chiamato Florida” di Sean Baker, regista più indie che mai, autore di questo film particolarissimo. Dove un universo di adulti e di bambini vive ai margini del parco divertimenti più grande del mondo. Poesia ed emozioni in un cinema di assoluta spontaneità e di umane illusioni che pare costruito dal vero.

Il mega-parco DisneyWorld è rigurgitante di famiglie e turisti. Poco distante, alla periferia del nulla, separato da una vegetazione incolta e da un progetto edilizio andato a male, sorge il Magic Castel Hotel, dai colori pastello tipici del quartiere Art Deco’ di Miami, a metà strada tra un albergo di terzo ordine e un residence per inquilini di passaggio che a stento riescono a pagare l’affitto. Lo gestisce in modo umano il manager/portiere/capo condomino Bobby (l’attore Willem Dafoe) che deve giocoforza avere a che fare quotidinamente con una umanità varia e molto problematica. In questa specie di condominio di case di ringhiera, diremmo se fossimo a Milano, si svolge la vita molto al limite di Halley, come il nome della cometa, e come la cometa appare luminosissima per brevi momenti per poi scompare nel buio della propria anima (strepitosa l’attrice Bria Vinaite): capelli verdi, un po’ “scunchiuruta” direbbero in Sicilia (sgangherata), molto tatuata. Giovane donna ribelle senza prospettiva. Ragazza madre con una figlia di sei anni, Moonee, la quale passa le giornate facendo monellerie e procurandosi guai con i suoi amichetti, facce da schiaffi e impertinenti come lei. Le vite di questi tre bambini continuano ad essere raccontate nel film, mentre la mamma di Mooney, in presenza o meno della figlia, continua a mettersi in altri guai. A volte per necessità (esempio, per racimolare soldi per pagare l’affitto), a volte per regalare alla figlia momenti di pseudo felicità (esempio, quando la porta ad abbuffarsi in ristoranti di lusso o almeno in decorosi diners), a volte per puro gusto nel cacciarsi nei guai. Alla voce “per necessità” rientra pure il fatto che Halley per sbarcare il lunario e pagare l’affitto al paziente Bobby, riceve in casa qualche uomo, magari con la bambina in casa e tristemente nascosta nella vasca da bagno. Cosa che non sfugge ai soliti vicini pettegoli che denunciano lo strano andirivieni di estranei fino a che non si presentano poliziotti e assistenti sociali con l’obiettivo di strappare Moonee alla madre e darla in affidamento. E qui comincia la parte piu’ drammatica del film ed il finale che si prepara è un altro momento lirico ed intensissimo del racconto.

La scena finale del film è stata girata a Disneyworld, con un iPhone, all’insaputa della direzione del parco.

Film in bilico tra due dimensioni, il vero e il falso, l’autentico e il contraffatto, il reale e il desiderato. Da una parte il Magic Castle Hotel con i suoi colori vivaci ma con il silenzio e la tristezza del cuore di chi ci vive, dall’altra DisneyWorld con la gioia, i rumori e le grida dei bambibi e dei turisti visitatori. In mezzo l’esistenza allegramente tribolata di Halley. Bellissima la fotografia e i colori. E poi gli attori, con Willem Dafoe giustamente candidato allo Oscar per il suo Bobby, che deve fare esercizio di umanità a piene mani per tenere a bada e gestire la povertà materiale e culturale diffusa di un quotidiano quasi fatalistico; e poi la stralunata Halley / Bria Vinaite e con la piccola Mooney, impunite e meravigliose icone di un film da vedere e ricordare.

 

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