Mese: giugno 2018

Recensione “Dogman”

Anzitutto onore e grandi elogi all’attore reggino Marcello Fonte che alla sua prima interpretazione di un personaggio principale, ha vinto il premio come miglior attore al recentissimo festival di Cannes.

Il film è un noir liberamente ispirato ad un atroce fatto di cronaca romana di fine anni ’80; il regista Matteo Garrone racconta la storia del “canaro”, proprietario di un negozio di toletta per cani nel rione della Magliana. Marcello, questo il nome del canaro, per anni viene vessato da un molto presunto amicone, Simone (attore Edoardo Pesce), un gigantesco energumeno con il cervello inversamente proporzionale ai muscoli, fino a che tutta la rabbia accumulata negli anni non esplode nella brutale vendetta.

Prima di arrivare alla tragedia finale, vediamo Marcello, uomo piccolo e mite, che vive nella periferia della città; divide le sue giornate tra il modestissimo lavoro, l’amore assoluto per la figlia, un pacifico rapporto con i suoi vicini del quartiere da cui si fa benvolere, e un amore grande per i cani con i quali lavora, dal chihuahua al pitbull, ma soprattutto con il suo, di cane, con il quale a casa divide pure la pasta dallo stesso piatto, nel senso che proprio attinge con la forchetta alternandosi sull’unico piatto con il muso della bestiola. Una scena schifosa. Ma per arrotondare Marcello spaccia cocaina; questo fatto lo porta ad instaurare una torbida amicizia con Simone, il delinquente locale di cui abbiamo detto, il quale con piccoli crimini e atti di violenza terrorizza gli abitanti del posto, senza che nessuno abbia il coraggio di intervenire. Marcello gli procura la droga, lo aiuta in alcune rapine e subisce passivamente i suoi soprusi, accontentandosi della (quasi) nulla percentuale che Simone gli garantisce.

Un giorno Simone esagera con un furto, Marcello viene ovviamente incastrato e si fa un anno di carcere pur di non tradire l’amico facendo il suo nome alla Polizia. Quando Marcello esce di prigione, Simone, come era facilmente prevedibile, non gli riconosce la sua parte ed allora si scatena l’abisso di vendetta nella mente del personaggio protagonista. Con un escamotage, riesce ad attirare Simone nel suo negozio e a chiuderlo in una gabbia per cani, e qui comincia l’atroce vendetta. Marcello non voleva che la cosa degenerasse, gli bastavano solamente le scuse di Simone, ma quando questi riesce quasi a liberarsi dalla gabbia, ecco che, soprattutto per paura, Marcello non può che andare oltre con la violenza fino ad uccidere il suo aguzzino quasi torturandolo, legato ad una catena per i cani.

Il regista ha girato il film al Villaggio Coppola, frazione di Castel Volturno, ma riproducendo lo stesso ambiente romano della storia vera, quindi un quartiere periferico, quasi un non-luogo, dove le persone cercano di sopravvivere. Palazzi cadenti, strade sterrate luride, muri scrostati, pozzanghere, luci al neon fioche e tremolanti che brillano (si fa per dire) ad illuminare insegne di locali lerci. Praticamente una discarica con le persone dentro. “Dogman” è un racconto di morte che ha per protagonista il male, alimentato dal degrado nel quale si viveva in certe (molte) periferie italiane, all’epoca della storia, e oggi è forse ancora peggio. Il film poggia molto sulla straordinaria interpretazione del neoattore Marcello Fonte che interpreta il brutto, fragile, miserabile eppure dolce protagonista, confinato negli abissi della periferia con l’unica consolazione dell’amore per la figlia e per i cani.

Matteo Garrone bravo come in “Reality” e “Gomorra” nell’affermarsi come notevole autore in un ambito che possiamo definire ancora neo-realista, con personaggi che vivono ai margini, periferia culturale, materiale e spirituale. Impeccabile la sua direzione degli attori. Un bel film italiano per il quale abbiamo fatto il tifo a Cannes e che in effetti poteva arrivare fino all’eldorado della Palma d’oro.

 

Recensione “La prima meta”

La Giallo Dozza è la squadra di rugby del carcere di Bologna.
Max il loro allenatore, un vero allenatore di rugby,  oltre che un laureato in psicologia. Il che farà la differenza.

“La prima meta “, docufilm di Enza Negroni del 2016 narra senza retorica e sbavature sentimentalistiche, la nascita di una squadra di rugby che milita in categoria regionale C3, senza mai giocare fuori casa.
La determinazione dell’allenatore, quello della della direttrice del carcere che affianca il progetto, del responsabile della sicurezza, ma soprattutto dei giocatori, che cercano e trovano una motivazione che li proietti fuori dalla monotonia della vita carceraria, ma che li aiuti  anche  nella scoperta di una nuova solidarietà, fare squadra, riescono nell’intento.

Ci sono le difficoltà, le delusioni, la testardaggine dell’allenatore che non fa niente per illuderli, ma vuole il risultato. Che non è il punteggio sul campo, ma la nascita di una solidarietà fra i singoli e la compattezza della squadra. Ci si allena e si gioca con tutte le condizioni meteo, e si sa che Bologna non è una città calda d’inverno.

E a poco a poco, le mura  claustrofobiche che  precludevano la vista del cielo e soffocavano anche lo spettatore come i giocatori, sembrano aprirsi allo spettacolo sportivo quando agli allenamenti seguono le partite vere, con il pubblico di sorveglianti, ma anche di familiari e ospiti esterni, sugli spalti.
La squadra nasce, attraverso attese, delusioni, fatica, difficoltà, ma tanta voglia di farcela.
Per abbattere, almeno per quelle poche ore della partita, l’ostacolo che separa da una libertà, e che per alcuni porta il sigillo terribile del ‘fine pena mai’.

Max, Massimiliano  Zancuoghi , ora allenatore della squadra di Rugby dell’Alghero, lavora sul doppio binario dell’atletismo e della psicologia, col cesello del sentimento e con lo sprone di un metaforico pugno di ferro; li affronta a brutto muso, e li incoraggia fraternamente.

L’80% dei carcerati che hanno partecipato ad attività sportive, teatrali, creative o lavorative in carcere non hanno avuto una recidiva. E questo qualcosa significa.

Le riprese, durate quasi due anni, effettuate per evidenti necessità con una troupe ristretta al massimo di sole tre persone, seguono da vicino  le vicende sia della vita sportiva, sia di quella carceraria, con i momenti di tristezza, le lettere dei familiari, la preghiera (il 60% dei detenuti del Dozza sono stranieri e per lo più arabi, albanesi, rumeni, serbi), lo studio del Corano, la solitudine delle notti insonni.

Le partite, alla fine, rappresentano una liberazione, un momento atteso e stimolante che aiuta a sopportare la reclusione e fa sperare in un domani, per chi potrà, segnato da un destino finalmente migliore.

[Recensito dalla collaboratrice Manuela].