Mese: maggio 2019

Recensione “Red Joan”

Il libro “La ragazza del KGB” di Jennie Rooney, a sua volta ispirato alla vicenda reale di Melita Norwood, fisica nucleare ed ex agente britannica arrestata per spionaggio negli anni Novanta con l’accusa di avere trasmesso all’Unione Sovietica informazioni per costruire la bomba atomica ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, è alla base del film “Red Joan” di Trevor Nunn.
Joan Stanley è la protagonista del libro e del film, interpretata da anziana da una a tratti commovente Judi Dench, e da giovane da Sophie Cookson.
Studentessa di fisica a Cambridge, integerrima e brillante, viene a poco a poco coinvolta nel giro dei simpatizzanti comunisti che negli anni ’30 furono attivi nella prestigiosa università. La sua collaborazione alla sperimentazione della bomba atomica la rende un interessante obiettivo per convincerla a passare informazioni all’Unione Sovietica, cosa che, dopo diverse e travagliate vicende, farà con uno scopo ben preciso e, secondo il regista, non per interesse personale, ma con una motivazione intelligente e meditata.
Quello che ne risulta è un film godibile, ma forse un po’ mutilato, soprattutto nella sceneggiatura, dove si sentirebbe il bisogno di un maggiore coinvolgimento politico e personale della protagonista, e meno di una sua apparente sottomissione sentimentale a questo o quel personaggio maschile che tenta di tirala dalla sua parte, non si capisce bene se per amore o semplice strumentalizzazione.
Da questo equivoco sembra affrancarsi il personaggio interpretato da Judi Dench, che ha ben chiare in mente le cause del suo tradimento. Ma nei flashback che narrano le vicende del passato, la protagonista sembra più in balia degli avvenimenti che non di una reale e meditata strategia morale.
L’interpretazione della Dench, molto trattenuta, fatta soprattutto di primi piani e sguardi, si staglia sul resto del cast, onesto e ben strutturato, ma inevitabilmente inferiore. Forse darle maggiore spazio avrebbe anche avvantaggiato il film nel suo complesso.

 

Recensione “Il gioco delle coppie”

Le commedie francesi, a confronto di quelle nostrane, stupiscono sempre per la disinvoltura con cui affrontano lunghe e complicate conversazioni di carattere culturale, che alla fine sono proprio base e sostanza del film, cosa che le nostre commedie, anche le migliori, e mi viene in mente “Perfetti sconosciuti”, non si sognerebbero mai di osare. Come in un film del miglior Woody Allen, la gente parla per ore di libri, arte, film, musica, senza mai mostrare noia o insofferenza, addentrandosi nei dettagli, litigando persino, senza darsi per vinta e senza neppure abbandonare il cocktail o la sigaretta.
Ma a differenza del mitico Woody, dove sovente la conversazione scivola nel parossismo intellettualistico e di conseguenza nell’ironia, quando non addirittura nella satira, qui nel film “Il gioco delle coppie” il regista Assayas resta ben ancorato alla realtà.
Un editore, uno scrittore fra lo stralunato e il disagiato per mancanza di motivazioni autoriali, le rispettive mogli, amanti, segretarie, discutono di argomenti che sono ben ancorate anche alla realtà letteraria italiana. Sempre mangiando…
Il futuro del libro sarà l’eBook ? Il cartaceo sta scomparendo? Gli audiolibri sono veramente in testa alle vendite? Ha senso pubblicare, e quando, la versione digitale di un titolo editato tradizionalmente?
Ma soprattutto, un autore che scrive un libro in apparenza autobiografico, può rendere riconoscibili i suoi personaggi, o rischia querele dalla moglie separata?
La serietà e l’insistenza dei dialoghi monotematici può risultare inizialmente un po’ troppo insistita e quindi noiosa; fino a quando si percepisce l’ironia del regista. E si cominciano ad apprezzare le incongruenze insite nei personaggi e nei loro ruoli. A poco a poco la strategia si rivela e ognuno appare come è e non come credevamo che fosse. Grande prova attoriale di tutto il cast e ambientazioni da capogiro solo apparentemente semplici e fascinosamente disordinate. Quel tocco di nonchalance che i francesi sanno introdurre così bene e che distingue da sempre anche la loro filmografia. E sullo sfondo una critica non benevola, ma neppure velenosa alla nostra società, intellettuale e non.
Un buon film, da vedere.

 

By manu52

Perché vale la pena vedere “Manhattan” di Woody Allen

Volentieri pubblichiamo integralmente il bellissimo articolo di Gabriele Gargantini, apparso su “Il Post” dello scorso 25 aprile.

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Ci sono certe cose per cui vale la pena di vedere “Manhattan”

Che uscì 40 anni fa e fu scritto, diretto e interpretato da Woody Allen

Il 25 aprile di quarant’anni fa uscì Manhattan, il nono film di Woody Allen. Lui ha detto che non gli è mai piaciuto, moltissimi altri lo ritengono uno dei suoi film migliori, perché divertente, romantico e profondo.

Di per sé, Manhattan è una commedia romantica dalla trama nemmeno troppo complicata. Ma ci sono cose, tante cose – la fotografia, la musica, Manhattan, certe scene, certe frasi e Woody Allen – che lo rendono qualcosa di altro rispetto a un’ottima commedia romantica. Quando uscì Manhattan, Gene Siskel, stimato critico del Chicago Tribune, definì il film la miglior commedia romantica dell’anno, ma anche il miglior film drammatico dell’anno. In effetti Manhattan è un film spensierato e allegro, ma anche malinconico e pieno di citazioni colte; un film che è allo stesso tempo romantico e cinico, diretto ma anche complesso. Un film che, come ha scritto Fabio Fulfaro su Sentieri Selvaggi, mette insieme «Groucho Marx e Bergman, Chaplin e Fellini».

Manhattan è senza dubbio tra i film da vedere o rivedere, e ci sono certe cose per cui vale la pena farlo.

L’inizio con gli inizi
Il film si apre con diverse immagini di New York accompagnate dalla musica e dalla voce del protagonista, che prova diversi incipit per il suo romanzo su New York. Il protagonista è Isaac Davis, la musica è la Rapsodia in blu di George Gershwin. Il primo tentativo di incipit è: «Adorava New York, la idolatrava smisuratamente». L’ultimo, pronunciato appena prima che la musica diventi più intensa, è: «New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata».

La città
Molto semplicemente, Manhattan mostra Manhattan. Allen disse: «È la mia visione romantica e personale della vita a Manhattan. Mi piace pensare che se tra cent’anni la gente lo vedrà, imparerà qualcosa di cos’era la vita in città negli anni Settanta».

Da questo punto di vista, certe immagini sono quasi da documentario: mostrano com’era la Fifth Avenue, il Guggenheim, il planetario, Central Park, Staten Island e Washington Square Park. Come ha fatto notare il critico Norman Holland, il film «trasforma Manhattan in arte e, nel farlo, la semplifica». In certi casi la Manhattan del film è bellissima, quasi irreale, nonostante il protagonista, in uno dei suoi incipit, ne parli come di una «metafora della decadenza della cultura contemporanea». Nella Manhattan di Manhattan ci sono solo bianchi, benestanti e generalmente colti. Nel film si vedono poi poche cucine e poche camere da letto, ma molti marciapiedi e monumenti.

Il bianco e nero
Uno degli incipit tentati a inizio film dice: «Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero». Allen stesso disse in un’intervista: «Forse è colpa delle vecchie foto, dei film e dei libri, ma è così che mi ricordo New York».

Allen scelse fin da subito di girare il film in bianco e nero, una cosa per niente comune a fine anni Settanta, quando la nostalgia del bianco e nero era probabilmente meno sentita di ora. A occuparsi delle immagini del film fu il direttore della fotografia Gordon Willis, che aveva lavorato a Il padrino e a Tutti gli uomini del presidente, e che con Allen aveva collaborato per Io e Annie e Interiors. Willis era noto a Hollywood come “il principe della oscurità” perché, anche girando a colori, amava molto i chiaroscuri intensi e i neri decisi. Per Manhattan scelse però un bianco e nero meno duro e più romantico e realistico. Nel 1979, il critico del New York Times scrisse che il film «era così esteticamente bello da non sembrare reale».

La musica
Lo stesso tentativo di incipit che parla di bianco e nero aggiungeva subito dopo che New York «pulsava dei grandi motivi di George Gershwin».

Sembra strano, visto il titolo, ma Allen raccontò che l’idea per il film gli venne ascoltando la canzone, non pensando a Manhattan. Pensò quindi a un film da far girare sulle musiche di Gershwin, morto nel 1937, e non il contrario. Tutte le canzoni della colonna sonora di Manhattan furono composte da Gershwin, uno dei più celebri compositori del Novecento, ed eseguite dalle orchestre filarmoniche di New York e di Buffalo. Per parlare di quanto bene stanno insieme musica e immagini nel film, Peter Bradshaw, critico del Guardian, scrisse: «È quasi impossibile credere che la musica non sia stata composta appositamente per il film. E ora è quasi impossibile sentirla senza pensare al film. I loro destini si sono uniti».

I personaggi
Isaac, detto Ike, è interpretato da Allen ed è un coltissimo ma non particolarmente talentuoso autore televisivo di 42 anni con due divorzi alle spalle. Il lavoro non gli piace e lo abbandona per scrivere il suo romanzo su New York.

Oltre a Ike, i personaggi principali sono tre: Tracy, la studentessa di 17 anni con cui si vede; Yale, il suo migliore amico, che insegna letteratura; e Mary, una giornalista divorziata che all’inizio frequenta Yale ma che poi finisce con Ike. La storia del film non è quella di Yale e Ike che litigano per una donna: anzi, è Yale a consigliare a Ike di uscire con lei. È la storia delle relazioni tra le persone, e in particolare di Ike. Quando inizia il film, si è appena lasciato con l’ex moglie, poi frequenta Tracy, poi Mary torna con Yale e Ike si rende conto che in realtà vuole Tracy. Mary è Diane Keaton, Yale è Michael Murphy e Tracy è Mariel Hemingway (nipote di Ernest, lo scrittore).

La trama è vivace e con cose non banali: ci sono tradimenti, l’ex moglie di Ike (Meryl Streep) l’ha lasciato perché lesbica e, ovviamente, c’è un uomo di 42 anni che frequenta una donna di 17. Ma non è la trama quello che conta. È il modo in cui i personaggi pensano, agiscono e, soprattutto, quello che si dicono tra loro. Le prime parole del film, subito dopo i tentativi di incipit di Ike, le dice Yale e sono: «Io credo che l’essenza dell’arte sia fornire una sorta di approfondimento delle situazioni della gente, sapete?».

Le parole
Allen scrisse la sceneggiatura insieme a Marshall Brickman, con il quale aveva già collaborato con Il dormiglione ed Io e Annie. In quanto film di Allen, Manhattan è pieno di battute, gag verbali e frasi a effetto. Accompagnati, come mai prima di allora, da fitti dialoghi sulla vita e sulla morte. Norman Holland ha scritto: «Manhattan è un film verbale. Certo, Allen è sempre verbale, ma in genere sono frasi-da-una-riga. Questo film si poggia invece su una serie di lunghi discorsi, necessari per presentare certe tesi».

Citazione dal film: «Beh, io sono all’antica. Io non credo alle relazioni extra-coniugali. Credo che ci si dovrebbe accoppiare a vita, come i piccioni, o i cattolici»

La tecnica
Manhattan è gran parte di quello che è per le sue parole, ma non è solo parole. Nonostante in genere lo si tenda a considerare un regista poco interessato a certi tecnicismi, Allen fece alcune notevoli scelte per questo film. Oltre al bianco e nero, scelse ad esempio di girare in widescreen, un particolare formato in cui il rapporto tra lato lungo e lato corto dell’immagine è di 2,35 a 1: un formato atipico, che rendeva l’immagine molto più ampia.

Come spiega Fabio Fulfaro, in Manhattan ci sono alcune peculiari scelte di regia: «l’effetto decadrage, con i personaggi al limite esterno del campo di ripresa a sottolineare la loro marginalità e decentramenti»; «i piano sequenza con lenti carrelli all’indietro» (in cui la cinepresa si allontana fino a lasciare, in certi casi, che i personaggi parlino fuori dall’inquadratura); i netti stacchi tra un’inquadratura e l’altra (spesso in chiaro accordo con le musiche di Gershwin); «i pedinamenti frontali e le carrellate laterali» in cui la cinepresa segue i personaggi mentre passeggiano per New York. Fulfaro scrive  addirittura che «Manhattan sembra girato dalla cinepresa di Bertolucci o Truffaut».

Il formato widescreeen permette inoltre di fare inquadrature fuori dal comune: essendo l’inquadratura molto larga, i personaggi dialogano spesso restando tutti nell’inquadratura (e non, come succede spesso, con la cinepresa che fa ping-pong tra uno e l’altro). Ci sono anche scene in cui a parlarsi, camminando per strada, sono quattro persone. Secondo Holland è un chiaro esempio di tecnica al servizio della pratica perché «dà l’idea della vita sociale di New York».

La locandina
Tra le tante cose per cui Manhattan è ancora ricordato c’è la sua locandina. Mostra Ike e Mary (cioé Allen e Keaton), seduti su una panchina di Sutton Place Park, che tra l’altro fu portata per l’occasione, perché lì non c’era nessuna panchina. I due guardano il Ponte di Queensboro, che collega Manhattan e il Queens.

La scena mostrata nella locandina fu girata tra la fine della notte e l’inizio della mattina e la produzione del film chiese alla città di New York di lasciare le luci del ponte accese un po’ più del dovuto, per far venire meglio le riprese.

Willis raccontò in un’intervista che, con un tono molto pacato, disse al responsabile di produzione che si era occupato della cosa: «Lo sai che quelle luci mi servono, vero? Lo sai che se quelle luci si spengono, ti ammazzo, vero?». Successe poi, non è chiaro perché, che alcune luci si spensero; ma nessuno fu ucciso. Una cosa notevole di questa locandina è che è la locandina di un film romantico i cui due soggetti alla fine non finiscono insieme: lei, dopo una breve parentesi con lui, torna dall’amico di lui, con cui stava prima. E lui, alla fine del film capisce che non vuole lei, ma quella con cui stava prima.

I riferimenti
Nello stesso film in cui ci sono frasi come «sei così bella che stento a tenere gli occhi sul tassametro», ci sono anche tante citazioni colte. Alcune visive – ad esempio al film Gioventù bruciata, nella scena al planetario – altre verbali a scrittori, registi e artisti come Carl Jung, Scott Fitzgerald, Jean Renoir, Zelda Fitzgerald, Sigmund Freud, Gustav Mahler, Ingmar Bergman, Federico Fellini. Manhattan è una commedia romantica, ma per i discorsi che vengono fatti e i personaggi che vengono citati è chiaramente anche un film colto, pieno di riferimenti e ragionamenti che non sempre vengono capiti a pieno da chi lo sta guardando.

Yale: Per me LeWitt è sopravvalutato anzi potrebbe essere candidato per la nostra accademia. Mary e io abbiamo inventato un’Accademia dei sopravvalutati.
Mary: Sì, è vero.
Yale: Per i tipi come Gustav Mahler.
Mary: Isak Dinesen e Carl Jung.
Yale: Scott Fitzgerald.
Mary: Lenny Bruce. Non dimentichiamocelo. E allora Norman Mailer?
Isaak: Per me sono tutti grandi. Tutti quelli che avete nominato.
Yale: E poi? Ce n’era un altro…
Mary: No, no, io no, era tuo. Ricordi? Heinrich Böll.
Isaak: Sopravvalutato?
Yale: Comunque non vorremmo lasciar fuori…
Isaak: E allora Mozart? Non vorrete lasciar fuori Mozart, già che siete a buttarli via.
Mary: Vabbè, allora Vincent Van Gagh o Ingmar Bergman?
Isaak [a Tracy]: Van Gagh? Si dice Van Gagh?
Yale: Ah, Ora ti sei messa nei guai con Bergman.
Isaac: Bergman è l’unico genio del cinema d’oggi forse.

Le cose per cui vale la pena di vivere
Oltre che per le battute, le inquadrature, la locandina, la musica, i riferimenti e la città, Manhattan è ricordato per la scena, più volte citata, in cui Ike – ma forse più di Ike, Allen – elenca le cose per cui vale la pena vivere.

«Be’, ci sono certe cose per cui valga la pena di vivere. Per esempio, per me, io direi il vecchio Groucho Marx, per dirne una. E Joe DiMaggio e, il secondo movimento della sinfonia Jupiter e Louis Armstrong, l’incisione di “Potato Head Blues”. I film svedesi, naturalmente, L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne, i granchi da Sam Wo».

Un comico, un giocatore di baseball (nella versione originale è Willie Mays, che però in Italia non era così noto), un pezzo di una sinfonia di Mozart, una canzone, un po’ di film svedesi («naturalmente»), un romanzo, un attore, un cantante (e attore), i frutti di un pittore francese e i granchi di ristorante.

Poi Ike ci ripensa e aggiunge all’elenco:

«Il viso di Tracy»

La fine
Dopo aver pensato al suo viso e a lei, Ike attraversa New York per andare da Tracy, che sta partendo per andare a studiare a Londra (dove lui l’aveva convinta ad andare). Bradshaw ha scritto, tra l’altro, che fu proprio questo film a imporre il cliché della corsa contro il tempo per convincere l’amato (o l’amata) a non partire.

In questo caso Ike riesce a incontrare Tracy e prova a convincerla a restare, dato che lui la ama. Lei invece gli dice che ormai deve partire, che starà via solo sei mesi e che magari per loro ci sarà tempo e modo di tornare a essere una coppia. In un finale che per molti è una citazione di quello di Luci della città di Charlie Chaplin, le ultime parole sono di Tracy che, dopo tutte le elucubrazioni del film, e le paranoie di Ike sull’uscire insieme a una ragazza che “deve fare i compiti”, sembra dare a Ike una lezione molto semplice e pragmatica: «Senti, sei mesi non sono tanti. E non è che tutti si guastino». Le ultime parole del film, anche queste molto semplici, le dice sempre Tracy:

«Bisogna avere un po’ di fiducia, sai, nella gente».