Mese: marzo 2018

Recensione “Quello che non so di lei”

Grande (anzi, non esageriamo, diciamo piu’ che discreto) Roman Polanski, come quasi sempre, a 84 anni, anche se qui c’e’ un po’ di gia’ visto: il tema del doppio, la artista che diventa vittima della ammiratrice in stile “Misery non deve morire”. Un film un pelo meno brillante dei recenti “Venere in pelliccia” e “Carnage” dello stesso regista, ma sempre con tracce evidenti del talento di Polanski. E’ la storia di un conflitto al femminile, una scrittrice famosa in crisi che viene letteralmente mangiata da una ammiratrice / ghost writer che la stalkerizza alla grande. Temi classici polanskiani, identità doppie, verità e finzione che s’intrecciano. Le donne in questione sono la solita Emmanuelle Seigner e la magnifica Eva Green. Una gara di bellezza e di bravura.

“ Quello che non so di lei” e’ il ventunesimo film di Polanski, da un adattamento di Olivier Assayas, quello del bellissimo “Sils Maria” e del molto piu’ dimenticabile “Personal shopper”. E infatti anche qui abbiamo due donne impegnate nell’arte della manipolazione. Una scrittrice famosa un po’ sfiorita ed in crisi creativa (Seigner) trova conforto in una scrittrice ghost writer (incarnata dall’inquietante e sensuale Eva Green) che un po’ alla volta le diventa amica, la seduce, la travolge fino a sostituirsi a lei, fino alla deflagrazione drammatica finale.

Romano mette in scena un thriller al femminile sullo sfondo appena accennato di una Parigi grigia, nella prima parte del film, con appartamenti e locali moderni abitati e frequentati da vippame vario e intellettuali in ambito cultura e mass media francesi. Nella seconda parte ci si trasferisce in una casa di campagna dove la scrittrice, ormai competamente tele-guidata dalla amicona, dovrebbe ritrovare la sua vena creativa ma sarebbe stato molto meglio per lei restare a Parigi, e possibilmente da sola.

Da notare che il film comincia con il primo incontro tra le due protagoniste, con la ammiratrice che arriva trafelata e con pochi minuti in ritardo, quando tutti sono andati via, alla presentazione di un libro della sua scrittrice-idolo, dopo che questa ha gia’ firmato centinaia di autografi e dediche ai lettori in fila; dopo qualche insistenza, pur essendo fuori tempo massimo, la ammiratrice riesce ad avere la sua dedica sulla copertina del libro. Ma evidentemente Polanski deve avere qualche problema con chi arriva appena oltre l’ultimo minuto utile: infatti cominciava cosi’ anche “Venere in pelliccia”.

 

Recensione “The party”

Un film in bianco e nero, oggi: prima e più evidente caratteristica di questo film. Un party, inteso come festa ma anche come partito politico, o corrente di partito. Un aperitivo in casa di Kristin Scott Thomas per sette politici riformisti nella Londra in epoca Brexit. Ma la gioa per la festa della politica dura poco, presto si mescola alla rivelazione di un dramma privato che coinvolge tutti. Un bel film collettivo diretto da Sally Potter, un cast eccellente.

Il film inizia con una pistola puntata contro lo spettatore, in realtà è  contro l’ultimo ospite, che arriva con colpevole ritardo (poi si capira il perchè) all’happy hour poco happy organizzato dalla padrona di casa per festeggiare la sua nomina a ministro della salute nel governo ombra laburista. Bisogna dire che la regista Sally Potter è stata molto furba nelle varie conferenze stampa di presentazione del film: ha detto “tema Brexit” ai britannici, e ha detto “crisi della sinistra” agli italiani, e tutti sono tornati a casa felici e contenti. In realtà tutti i sette invitati al rinfresco corrispondono ad uno stereotipo della sinistra inglese che inevitabilmente risente del crollo del mito di Tony Blair, quindi si tratta piu’ di una sinistra post-Blair che da attuale Brexit.

“The party” è una sorta de “Il grande freddo”, uno sfogo generazionale della sinistra britannica ma in molte delle sue caratteristiche è degno della peggiori performance della sinistra e del mito del ’68 italiano: la casa e la famiglia borghese, l’incontinenza verbale nel parlarsi addosso senza dire nulla di concreto, il rimuginare sugli errori del passato anzichè pensare a costruire una idea di futuro, l’incapacità di capire gli eventi nuovi che il mondo porta, e poi cinismo e ricerca del compromesso a gogo’.

Il film dura poco, settanta minuti divertenti di black comedy. Lo spettatore  sa che la pistola sparerà, anche se all’inizio tutto sembra tranquillo a parte la leggera ansia che assale la padrona di casa prima che gli ospiti suonino alla porta. Il marito (Timothy Spall) pare tranquillo. Un’amica arriva con il marito tedesco (Bruno Ganz), con consigli prodigati a chi non li chiede. Una collega del marito, insegnante, lesbica, esibisce la compagna-trofeo: molto più giovane e incinta di ben tre gemelli. Il modello, ormai abusato, è “Carnage” di Roman Polanski, con l’azione che si svolge tutta in un solo ambiente, condizione ideale per una riproposizione in forma di piece teatrale. Sally Potter dirige un classico intreccio di segreti e bugie: tutto in un salotto, con poche fughe in cucina dove è pronto il catering, tutto in tempo quasi reale, ottimi attori tra i quali spicca Patricia Clarkson, gia’ vista piu’ volte con Woody Allen. Film in bianco e nero forse perché costa meno: ma ipocrisie, perfidie e bassezze umane non pesano sul budget, quindi ce ne sono in abbondanza.

 

David di Donatello 2018

Come sapete 2 sere fa sono andati in scena i David, di fatto gli Oscar del cinema italiano. Come miglior film italiano dell’anno ha vinto “Ammore e malavita” dei Manetti Bros, un bel film e originale, in stile simil-musical in salsa partenopea (originale OK, ma in parte discendente di “La La Land”).

Sui commenti alla recensione su questo blog de “La forma dell’acqua”, film che ha vinto l’Osar (quello vero), sta prendendo piede un mini-dibattito sul fatto se sia stato meritato o meno (stanno prevalendo i SI); e invece di questo premio a livello nazionale che ne pensate?

 

Recensione “Il filo nascosto”

Cinema con la C maiuscola. Siamo solo a marzo ma “Il filo nascosto” è già uno dei film che resterà tra i più belli del 2018.

Dal grande regista Paul Thomas Anderson (PTA da qui in poi), quello di “Boogie Nights”e “Vizio di forma”, un film raffinatissimo sul potere di seduzione, la storia di un sarto inglese che negli anni ’50 veste anche la famiglia reale. L’incontro con una umile cameriera, che riproporrà il solito copione della intensa e devastante storia d’amore tra l’artista e la sua musa, gli farà scoprire il complesso e contraddittorio mistero dei sentimenti. Se davvero questo è l’ultimo film di Daniel Day Lewis (DDL da qui in poi), il cinema perderebbe tanto. Infatti l’anno scorso  Danielino ha annunciato che questo film sarebbe stato l’ultimo della sua carriera come attore. Motivo di tale bizzarro annuncio: l’estenuante cura con cui si dedica alla preparazione di ogni personaggio che interpreta è ormai andata troppo oltre. Infatti al Nostro non basta più essere solo apprezzatissimo dal pubblico: autocritico e intransigente con se stesso, vuole raggiungere livelli di perfezione tali da sfociare nell’ossessione. En passant ricordiamo che l’attore detiene il record di Oscar vinti come migliore attore protagonista: tre, e quest’anno era candidato al quarto che pero’ come sappiamo non è arrivato.

La storia narrata nel film si basa su Reynold Woodcock (DDL), un raffinato sarto/stilista che vive nella Londra degli anni ’50. Il lavoro è l’aspetto totalizzante della sua vita: realizza abiti per sovrane, star del cinema ed ereditiere che si affidano a lui (alla sua arte, al suo mestiere) per tutte le loro occasioni mondane più importanti. Woodcock abita con la sorella Cyril che amministra per lui casa e affari. Le donne per Woodcock, troppo concentrato su se stesso e sulle sue creazioni artistiche, sono solo storie da aprire e poi chiudere al piu’ presto. Reynold Woodcock non ama distrazioni o imprevisti. La sua giornata è programmata interamente con rigore ferreo grazie all’impeccabile organizzazione dettata dalla sorella. Woodcock è un esteta, un elegante uomo di cultura, un dispotico affascinate eccentrico. E DDL ci regala un personaggio davvero immenso. Woodcock ha un rapporto ambiguo con tutte le donne che frequentano il suo atelier. Si circonda di muse, ma le rifugge sentimentalmente stancandosi presto di loro; invece ha un legame di dipendenza dalla sorella. Tutto questo fino al giorno in cui incontra Alma (Vicky Krieps), che da musa diventa sua amante, stravolgendogli completamente la vita. La scena in cui Alma scende a fare colazione a casa di Woodcock e imburra rumorosamente il toast mentre lui sta realizzando i primi schizzi della giornata, finendo per distrarlo, è davvero esplicativa della prima parte del loro rapporto (artista predominante sulla musa) e mostra tutta la rigida creatività dello stilista. Reynold conosce Alma in un ristorante in cui fa la cameriera, prima la seduce con la sua classe, quindi la conduce nel suo studio/atelier casa e bottega, dove lei finisce prigioniera delle sue continue umiliazioni. Ma Alma, a differenza delle altre donne che lo circondano o che ci hanno provato in passato, non ci sta e reagisce. E così trova il modo di trasformarsi da vittima in carnefice, scoprendo il punto d’incontro tra le loro rispettive ossessioni. Un giuoco brutale che prevede il perenne passaggio dal dolore ad una riscoperta dell’amore.

Un film elegante. Non solo perché mette in scena il mondo dell’alta moda londinese anni ’50, che già è tanta roba, ma perché il sarto Woodcock rappresenta l’essenza del classico senza tempo. DDL regge da solo il peso di un film incentrato completamente sul suo personaggio. PTA e DDL ci regalano un’altra opera importante  ma soprattutto un personaggio immenso.

Solo un Gary Oldman spaziale nella interpretazione di Churchill in “L’ora piu buia” ha potuto negare a DDL il quarto Oscar della sua carriera come migliore attore.

 

Recensione “Figlia mia”

L’amore conteso tra due madri, una razionale e l’altra passionale, per la loro figlia ragazzina cui spetterà di scegliere. Nel panorama della Sardegna più selvaggia, si confrontano le interpretazioni di Valeria Golino e di Alba Rohrwacher nel secondo film della regista Laura Bispuri, che si cimenta in questa drammatica storia sul tema dell’amore materno.

Certo che a vedere, in questo film, le performance di queste due attrici, che pure sono (meritatamente) nel gruppetto delle migliori a livello di cinema italiano, solo pochi giorni dopo avere assistito alla ennesima intepretazione galattica di Meryl Streep in “The Post”, viene da pensare che la suddetta Meryl potrebbe citarci tutti per uso improprio della parola “attrice”, e vincerebbe la causa ai paletti.

Come detto prima, “Figlia mia” è l’opera seconda di Laura Bispuri dopo il suo esordio con “Vergine giurata”. Questo, però, dobbiamo dire che è un film abbastanza non riuscito, dove si ritrovano amplificate le abituali difficoltà tipiche della seconda opera di quasi ogni regista. La storia è quella di Vittoria, bambina che a dieci anni scopre di avere due madri: Tina (Valeria Golino), la madre “acquisita”, solida e razionale, con la quale ha vissuto fino ad ora, e Angelica (Alba Rohrwacher), fragile e spaesata, che poi sarebbe la madre vera, biologica. Siamo in Sardegna, in contesto sociale di emarginazione, che riguarda soprattutto Angelica: sentimentalmente labile, sessualmente disinvolta, esistenzialmente uno schifo, cerca di salvare casa e cavalli dallo sfratto, tra una birretta e l’altra. Il racconto del suo alcolismo e del suo disagio è macchiettistico, ovvero la Rohrwacher non è credibile, per tacere della Golino, ancora meno verosimile. Il film narra questo rapporto tri-partisan mamma1/figlia/mamma2, e il momento topico della storia, che secondo la regista dovrebbe essere il punto di discontinuita’ che definisce un prima e un dopo nella vita della povera figlia vittima senza colpe, è quando la piccola Vittoria, in modalita’ spada, entra ed esce da una spaccatura nella roccia che, sempre secondo chi ha pensato questa scena, immaginiamo che vada letta come una vagina. Quindi una metafora, come un ritorno in utero per una nuova nascita simbolica con entrambe le madri…….

 

Recensione “A casa tutti bene”

Mica tanto bene, in realtà. A casa Muccino non stanno affatto tutti bene. In occasione delle nozze d’oro della coppia Alba (Stefania Sandrelli) e Pietro (Ivano Marescotti), una tribù di parenti si reca sull’isola di Ischia a far festa, si fa per dire. In realtà ciascuno offre il peggio. Più che l’ultimo bacio, stavolta Muccino dà l’ultimo pugno in faccia, ripetendo stereotipi da fiction RAI, in un festival di gelosie, liti, ripicche. Dopo la festa, tutti vorrebbero e dovrebbero rientrare in serata nelle loro città, ognuno con i suoi impegni. Ma un’improvvisa mareggiata blocca arrivi e partenze dei traghetti. La già fragile armonia presto si frantuma e tornano a galla inquietudini, gelosie, tradimenti. E c’è anche un inaspettato colpo di fulmine, mentre il mare in tempesta continua a rumoreggiare per tutta l’isola. “Il mare d’inverno”, cantava Loredana Berté. Qui invece i brani sono tanti, questo film sarebbe potuto essere quasi un musical, i protagonisti hanno imparato a memoria diverse canzoni. Si parte con Gianmarco Tognazzi al pianoforte con Bella senz’anima, si prosegue con “Dieci ragazze”, “Margherita”, per passare poi ad “A te di Jovanotti, che sottolinea tutta l’incomunicabilità e i problemi mai risolti della coppia Sabrina Impacciatore – Giampaolo Morelli. Muccino lavora con un gruppo di attori, tutti molto bravi, in effetti il cast è quasi il meglio oggi del cinema italiano. Al vortice di isterismi e vecchi rancori familiari riescono a sottrarsi in pochi. Restano gli sguardi un pò in disparte di Elettra (Valeria Solarino), quelli persi di Sandro (Massimo Ghini) che ha perso la memoria, i sogni di fuga verso spazi lontani di Diego (Giampaolo Morelli), di Paolo (Stefano Accorsi) e di Isabella (Elena Cucci). Ma la mareggiata sembra portarsi via tutto. E quando si comincia ad affezionarsi a qualcuno dei personaggi, il film è quasi finito.

Dopo “L’ultimo bacio”, “Ricordati di me” e “Baciami ancora”, con questo “A casa tutti bene” Muccino chiude la tetralogia di un cinema familiare sull’orlo di una crisi di nervi. Pure, con questo film il regista rispolvera il metodo “Ettore Scola” (La terrazza”, “La famiglia”) con tanti personaggi, e attori famosi, chiusi in un unico luogo, all’interno del quale si creano i conflitti, dove l’istinto prevale sulla ragione, come negli scontri tra Carlo (Pierfrancesco Favino) e Ginevra (Carolina Crescentini).

Come detto, non stanno tutti bene i personaggi di Muccino. Anzi, stanno tutti peggio, pieni di collera e di astio. In questo versione nostrana de “Il Grande freddo”, tutti sono contro tutti. Spesso il cinema serve per evadere dalla realtà, per sognare; oppure per vedere anche il nostro presente, la nostra realtà che non ci piace, ma ci piace nel film, se paragonata alla terribile negatività della storia che vediamo. Dopo un film come “A casa tutti bene”, la nostra vita di tutti i giorni diventa meglio del cinema. E non la vita facile e fatta di piaceri, ma proprio quella piena di seccature. Se si riesce a fuggire da Ischia, anche a nuoto, pure una martellata sulle dita può diventare improvvisamente un sollievo.

 

Recensione “Chiamami col tuo nome”

Dopo “Io sono l’amore” (molto bello) e “A Bigger Splash” (meno bello), Luca Guadagnino completa la sua trilogia sui ricchi in amore con questo film che è stato candidato all’Oscar come miglior film, categoria assoluta, ed ha vinto quello per la migliore sceneggiatura non originale. Il regista narra l’innamoramento di un 17enne per un allievo del padre, docente universitario. Estate italiana di meta’ anni ’80, l’ovatta della borghesia colta ebraica rischia di spaccarsi ma alla fine tiene: da vedere.

È una storia d’amore, ma è anche il racconto di una vacanza estiva, la scoperta di un diverso se stesso, l’utopia di un mondo più accogliente, la descrizione di una atmosfera. Attori più che buoni anche se per niente star affermate.

Ambientato nell’estate del 1983, nella campagna nei pressi di Crema,  il film racconta l’arrivo di un estraneo, il ricercatore universitario americano Oliver (Armie Hammer), all’interno di una comunità rilassata e vacanziera; tale presenza estranea offre a ognuno dei protagonisti l’occasione per scoprire o rivelare qualcosa di sé. È un’abitudine dei padroni di casa, il professor Perlman (Michael Stuhlbarg), professore universitario e archeologo, e sua moglie Annella (Amira Casar), invitare ogni estate un dottorando per poter lavorare tranquillamente, docente e allievo, in quella cornice di vacanza di campagna. Anche il figlio Elio (Timothée Chalamet), ragazzo di grande preparazione musicale e letteraria, si mette a disposizione dell’ospite insieme con amici e amiche che bazzicano la tenuta di campagna della famiglia.

La storia, sceneggiata da James Ivory a partire dal romanzo omonimo di André Aciman, continua con l’attrazione delle ragazze per il nuovo affascinante arrivato, l’irritazione di Elio per i suoi comportamenti fin troppo disinvolti, lo stallo dei genitori padroni di casa per una presenza esterna che intuiscono destinata ad accendere passioni. Poi il film segue i turbamenti di Elio alle prese con l’esplosione della sua sessualità, all’inizio per l’amica Marzia e poi per Oliver. E da qui la storia deflagra fino alla fine.

A parte una scena con una pesca matura che fa un po’ schifo, possiamo dire che Luca Guadagnino riesce a non scadere nella scabrosita’, anzi realizza un’opera abbastanza sobria. Proprio questa è parte della forza del film, nella voglia di mostrare dolcezza e non scandalo. Per questo il film va oltre la classica «storia d’amore», perché mescola le voglie del sesso con il piacere dell’estate, la scoperta del proprio desiderio con la sua accettazione. Gli zii che a tavola si accalorano per il governo Craxi e il pentapartito, le domestiche che parlano di Resistenza, la lettura del quotidiano “Le Monde” (in una famiglia italiana !) sono tutti momenti che vorrebbero introdurre una parallela visione sociale di quegli anni ma il film lascia che il mondo esterno non turbi un’estate che i suoi protagonisti non dimenticheranno mai.

Comunque, pur in presenza di una opera piu’ che buona e di un regista italiano in forte ascesa dopo anni di gavetta, è corretto affermare che se i film concorrenti all’Oscar erano quelli che erano, è giusto che “Chiamami col tuo nome” non l’abbia vinto.

Recensione “La forma dell’acqua”

C’è talmente tanta acqua in questo film che potrebbe essere il remake de “L’era glaciale” girato in epoca di effetto serra. Comunque meritato l’Oscar appena vinto come miglior film. E poi quello come miglior regista, in mezzo peraltro a 13 nomination. Una donna, muta, addetta alle pulizie in una struttura di spionaggio americano a Baltimora, scopre in un laboratorio una maxi creatura anfibia nascosta, la ama e se la porta a casa. Un film pseudo – horror con romantica love story di straordinaria potenza visionaria. Da vedere. Si resta incantati davanti a tanto amore per il cinema. Guillermo del Toro ama i mostri, ne ha sempre avuto una passione, per quelli del cinema e della letteratura, da tempo colleziona vecchi manifesti e statuette, come confessato pochi mesi fa a Venezia quando vinse anche quella Mostra con questo film, in cui ne fabbrica uno, di mostro, estremamente affascinante. Nel tempo ci sono state diverse variazioni sul tema della Bella e la Bestia, all’elenco mancava in effetti la creatura anfibia con le squame, che deve seguire dieta proteica, uova sode a gogò, manco fosse un culturista. Siamo nel 1962, piena Guerra fredda. Stati Uniti e Unione Sovietica cercano di prendere il sopravvento uno sull’altro in ogni ambito, chi manda la prima cagnetta nello spazio, chi il primo uomo. Quindi anche un mostro anfibio pescato in chissà quale fiume, che potrebbe nascondere segreti scientifici e potenziali applicazioni, può diventare oggetto di contesa, almeno da studiare segretamente. Infatti i sovietici, con le loro spie dentro il laboratorio, vorrebbero rubare l’umido cimelio. I “cattivi” tra gli americani, dopo avere torturato il mostro, studiato le sue funzioni vitali per scopi forse scientifici, sono pronti ad ammazzarlo.

Elisa la muta, come detto, è una fanciulla che fa le pulizie in questo lab di Baltimora. L’attrice è Sally Hawkins (era la sorella povera e provinciale di Cate Blanchett in “Blue Jasmine”). Accanto a lei lavora di straccio e scopa, e parla per due, per sé e per la muta, la linguacciuta Octavia Spencer. Succedono tante cose, la trama pare semplice, ma si resta avvinti dalla storia. I dettagli della stanza della ragazza solitaria, l’appartamento del vicino che fa il disegnatore, il cinema di periferia, sono squarci che descrivono l’America di semi-periferia anni ’60.

Guillermo del Toro svela un animo romantico al cubo. Sottotrame, metafore, morali si sprecano. Una fiaba, un po’ “La sirenetta”, un po’ horror. C’è sempre qualcuno, in qualche parte del mondo o di altri mondi, disposto ad amarti e ad essere amato. Al limite, occhio all’umidità.