Proprio in coincidenza con l’anno in cui il Nobel per la letteratura non viene assegnato per le note vicende legate a presunte molestie e relativa (per niente ipocrita?) campagna del “Me Too”, ecco questo film che narra la storia dello scrittore Joe Castleman (l’attore Jonathan Pryce), americano di origine ebraica (ogni riferimento a Philip Roth è, forse, volutamente non casuale), che dopo avere ricevuto nella sua casa nel Connecticut la telefonata che gli annuncia di essere il vincitore del Nobel per la letteratura del 1992, è in procinto, insieme con la moglie Joan (una straordinaria Glenn Close) e il figlio (l’attore Max Irons, figlio d’arte) di partire per Stoccolma per la cerimonia di consegna del premio. Questo viaggio tuttavia finisce per rappresentare l’occasione giusta per fare riaffiorare tutti i nodi irrisolti del passato della coppia, che in terra svedese emergono ed esplodono violentemente fino all’apoteosi del dramma nella serata della cerimonia e nella notte che segue.

Dopo la scena iniziale della telefonata con l’annuncio del premio, andando avanti nel film e con l’aiuto dei soliti flash-back, si scopre che la moglie, da decenni devota al marito, ha sacrificato per lui ambizioni e talento. Ed infatti il titolo del film in italiano, con cui quello originale è stato tradotto, è “Vivere nell’ombra”.

Con i protagonisti, in viaggio sullo stesso aereo e poi sempre stranamente in zona a Stoccolma, c’e’ un invadente e non richiesto giornalista, auto-proclamatosi candidato biografo dello scrittore, che fiuta il maxi scoop / gossip di famiglia, la chiave della storia, perché ci sono strane somiglianze tra gli scritti del vanaglorioso scrittore e i primi tentativi letterari della moglie, anni prima quando era studentessa innamorata di Joe, all’epoca suo professore che per amore di lei abbandonò prima moglie e figlia. La stessa moglie, fino ad ora remissiva come abbiamo detto, è adesso pronta a porte chiuse nella stanza d’albergo al clima da redde rationem. E cosi i ricordi di questi fatti e delle infedeltà del marito, in aggiunta ai pettogolezzi del molesto giornalista che insiste nel volere scrivere la biografia dello scrittore, fanno esplodere la moglie Joan proprio alla cena ufficiale dopo la consegna del Nobel.

Basato su un romanzo di Meg Wolitzer, “The Wife” è un film in co-produzione USA, UK e Svezia, diretto da Bjorn Runge, regista svedese il cui curriculum era fino a oggi costituito da opere circoscritte alla cinematografia svedese. Il film scava dentro le dinamiche della creazione artistica letteraria e contemporaneamente denuncia la condizione del talento femminile a volte costretto ad una domestica sottomissione. Film un po’ scontato, prevedibile, ma già la sola interpretazione di Glenn Close, che con questo ruolo si candida all’Oscar, lo rende meritevole di essere visto. Il tema trattato rientra in parte nella categoria del “già visto” al cinema. Noi, con le dovute approssimazioni e molto soggettivamente, troviamo assonanze, per esempio, con “Un amore sopra le righe” del regista Nicolas Bedos, ma quello fu una vera chicca dello scorso inverno.

In questo “The Wife”, invece, lo spettatore è in grado troppo presto di rispondere alla domanda: la coppia parte per Stoccolma col rampollo frustrato che ha anche lui ambizioni letterarie e vuole copiare il papà: ma papà invece chi ha copiato?

 

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