Recensione “Il filo nascosto”

Cinema con la C maiuscola. Siamo solo a marzo ma “Il filo nascosto” è già uno dei film che resterà tra i più belli del 2018.

Dal grande regista Paul Thomas Anderson (PTA da qui in poi), quello di “Boogie Nights”e “Vizio di forma”, un film raffinatissimo sul potere di seduzione, la storia di un sarto inglese che negli anni ’50 veste anche la famiglia reale. L’incontro con una umile cameriera, che riproporrà il solito copione della intensa e devastante storia d’amore tra l’artista e la sua musa, gli farà scoprire il complesso e contraddittorio mistero dei sentimenti. Se davvero questo è l’ultimo film di Daniel Day Lewis (DDL da qui in poi), il cinema perderebbe tanto. Infatti l’anno scorso  Danielino ha annunciato che questo film sarebbe stato l’ultimo della sua carriera come attore. Motivo di tale bizzarro annuncio: l’estenuante cura con cui si dedica alla preparazione di ogni personaggio che interpreta è ormai andata troppo oltre. Infatti al Nostro non basta più essere solo apprezzatissimo dal pubblico: autocritico e intransigente con se stesso, vuole raggiungere livelli di perfezione tali da sfociare nell’ossessione. En passant ricordiamo che l’attore detiene il record di Oscar vinti come migliore attore protagonista: tre, e quest’anno era candidato al quarto che pero’ come sappiamo non è arrivato.

La storia narrata nel film si basa su Reynold Woodcock (DDL), un raffinato sarto/stilista che vive nella Londra degli anni ’50. Il lavoro è l’aspetto totalizzante della sua vita: realizza abiti per sovrane, star del cinema ed ereditiere che si affidano a lui (alla sua arte, al suo mestiere) per tutte le loro occasioni mondane più importanti. Woodcock abita con la sorella Cyril che amministra per lui casa e affari. Le donne per Woodcock, troppo concentrato su se stesso e sulle sue creazioni artistiche, sono solo storie da aprire e poi chiudere al piu’ presto. Reynold Woodcock non ama distrazioni o imprevisti. La sua giornata è programmata interamente con rigore ferreo grazie all’impeccabile organizzazione dettata dalla sorella. Woodcock è un esteta, un elegante uomo di cultura, un dispotico affascinate eccentrico. E DDL ci regala un personaggio davvero immenso. Woodcock ha un rapporto ambiguo con tutte le donne che frequentano il suo atelier. Si circonda di muse, ma le rifugge sentimentalmente stancandosi presto di loro; invece ha un legame di dipendenza dalla sorella. Tutto questo fino al giorno in cui incontra Alma (Vicky Krieps), che da musa diventa sua amante, stravolgendogli completamente la vita. La scena in cui Alma scende a fare colazione a casa di Woodcock e imburra rumorosamente il toast mentre lui sta realizzando i primi schizzi della giornata, finendo per distrarlo, è davvero esplicativa della prima parte del loro rapporto (artista predominante sulla musa) e mostra tutta la rigida creatività dello stilista. Reynold conosce Alma in un ristorante in cui fa la cameriera, prima la seduce con la sua classe, quindi la conduce nel suo studio/atelier casa e bottega, dove lei finisce prigioniera delle sue continue umiliazioni. Ma Alma, a differenza delle altre donne che lo circondano o che ci hanno provato in passato, non ci sta e reagisce. E così trova il modo di trasformarsi da vittima in carnefice, scoprendo il punto d’incontro tra le loro rispettive ossessioni. Un giuoco brutale che prevede il perenne passaggio dal dolore ad una riscoperta dell’amore.

Un film elegante. Non solo perché mette in scena il mondo dell’alta moda londinese anni ’50, che già è tanta roba, ma perché il sarto Woodcock rappresenta l’essenza del classico senza tempo. DDL regge da solo il peso di un film incentrato completamente sul suo personaggio. PTA e DDL ci regalano un’altra opera importante  ma soprattutto un personaggio immenso.

Solo un Gary Oldman spaziale nella interpretazione di Churchill in “L’ora piu buia” ha potuto negare a DDL il quarto Oscar della sua carriera come migliore attore.

 

Recensione “Figlia mia”

L’amore conteso tra due madri, una razionale e l’altra passionale, per la loro figlia ragazzina cui spetterà di scegliere. Nel panorama della Sardegna più selvaggia, si confrontano le interpretazioni di Valeria Golino e di Alba Rohrwacher nel secondo film della regista Laura Bispuri, che si cimenta in questa drammatica storia sul tema dell’amore materno.

Certo che a vedere, in questo film, le performance di queste due attrici, che pure sono (meritatamente) nel gruppetto delle migliori a livello di cinema italiano, solo pochi giorni dopo avere assistito alla ennesima intepretazione galattica di Meryl Streep in “The Post”, viene da pensare che la suddetta Meryl potrebbe citarci tutti per uso improprio della parola “attrice”, e vincerebbe la causa ai paletti.

Come detto prima, “Figlia mia” è l’opera seconda di Laura Bispuri dopo il suo esordio con “Vergine giurata”. Questo, però, dobbiamo dire che è un film abbastanza non riuscito, dove si ritrovano amplificate le abituali difficoltà tipiche della seconda opera di quasi ogni regista. La storia è quella di Vittoria, bambina che a dieci anni scopre di avere due madri: Tina (Valeria Golino), la madre “acquisita”, solida e razionale, con la quale ha vissuto fino ad ora, e Angelica (Alba Rohrwacher), fragile e spaesata, che poi sarebbe la madre vera, biologica. Siamo in Sardegna, in contesto sociale di emarginazione, che riguarda soprattutto Angelica: sentimentalmente labile, sessualmente disinvolta, esistenzialmente uno schifo, cerca di salvare casa e cavalli dallo sfratto, tra una birretta e l’altra. Il racconto del suo alcolismo e del suo disagio è macchiettistico, ovvero la Rohrwacher non è credibile, per tacere della Golino, ancora meno verosimile. Il film narra questo rapporto tri-partisan mamma1/figlia/mamma2, e il momento topico della storia, che secondo la regista dovrebbe essere il punto di discontinuita’ che definisce un prima e un dopo nella vita della povera figlia vittima senza colpe, è quando la piccola Vittoria, in modalita’ spada, entra ed esce da una spaccatura nella roccia che, sempre secondo chi ha pensato questa scena, immaginiamo che vada letta come una vagina. Quindi una metafora, come un ritorno in utero per una nuova nascita simbolica con entrambe le madri…….

 

Recensione “A casa tutti bene”

Mica tanto bene, in realtà. A casa Muccino non stanno affatto tutti bene. In occasione delle nozze d’oro della coppia Alba (Stefania Sandrelli) e Pietro (Ivano Marescotti), una tribù di parenti si reca sull’isola di Ischia a far festa, si fa per dire. In realtà ciascuno offre il peggio. Più che l’ultimo bacio, stavolta Muccino dà l’ultimo pugno in faccia, ripetendo stereotipi da fiction RAI, in un festival di gelosie, liti, ripicche. Dopo la festa, tutti vorrebbero e dovrebbero rientrare in serata nelle loro città, ognuno con i suoi impegni. Ma un’improvvisa mareggiata blocca arrivi e partenze dei traghetti. La già fragile armonia presto si frantuma e tornano a galla inquietudini, gelosie, tradimenti. E c’è anche un inaspettato colpo di fulmine, mentre il mare in tempesta continua a rumoreggiare per tutta l’isola. “Il mare d’inverno”, cantava Loredana Berté. Qui invece i brani sono tanti, questo film sarebbe potuto essere quasi un musical, i protagonisti hanno imparato a memoria diverse canzoni. Si parte con Gianmarco Tognazzi al pianoforte con Bella senz’anima, si prosegue con “Dieci ragazze”, “Margherita”, per passare poi ad “A te di Jovanotti, che sottolinea tutta l’incomunicabilità e i problemi mai risolti della coppia Sabrina Impacciatore – Giampaolo Morelli. Muccino lavora con un gruppo di attori, tutti molto bravi, in effetti il cast è quasi il meglio oggi del cinema italiano. Al vortice di isterismi e vecchi rancori familiari riescono a sottrarsi in pochi. Restano gli sguardi un pò in disparte di Elettra (Valeria Solarino), quelli persi di Sandro (Massimo Ghini) che ha perso la memoria, i sogni di fuga verso spazi lontani di Diego (Giampaolo Morelli), di Paolo (Stefano Accorsi) e di Isabella (Elena Cucci). Ma la mareggiata sembra portarsi via tutto. E quando si comincia ad affezionarsi a qualcuno dei personaggi, il film è quasi finito.

Dopo “L’ultimo bacio”, “Ricordati di me” e “Baciami ancora”, con questo “A casa tutti bene” Muccino chiude la tetralogia di un cinema familiare sull’orlo di una crisi di nervi. Pure, con questo film il regista rispolvera il metodo “Ettore Scola” (La terrazza”, “La famiglia”) con tanti personaggi, e attori famosi, chiusi in un unico luogo, all’interno del quale si creano i conflitti, dove l’istinto prevale sulla ragione, come negli scontri tra Carlo (Pierfrancesco Favino) e Ginevra (Carolina Crescentini).

Come detto, non stanno tutti bene i personaggi di Muccino. Anzi, stanno tutti peggio, pieni di collera e di astio. In questo versione nostrana de “Il Grande freddo”, tutti sono contro tutti. Spesso il cinema serve per evadere dalla realtà, per sognare; oppure per vedere anche il nostro presente, la nostra realtà che non ci piace, ma ci piace nel film, se paragonata alla terribile negatività della storia che vediamo. Dopo un film come “A casa tutti bene”, la nostra vita di tutti i giorni diventa meglio del cinema. E non la vita facile e fatta di piaceri, ma proprio quella piena di seccature. Se si riesce a fuggire da Ischia, anche a nuoto, pure una martellata sulle dita può diventare improvvisamente un sollievo.

 

Recensione “Chiamami col tuo nome”

Dopo “Io sono l’amore” (molto bello) e “A Bigger Splash” (meno bello), Luca Guadagnino completa la sua trilogia sui ricchi in amore con questo film che è stato candidato all’Oscar come miglior film, categoria assoluta, ed ha vinto quello per la migliore sceneggiatura non originale. Il regista narra l’innamoramento di un 17enne per un allievo del padre, docente universitario. Estate italiana di meta’ anni ’80, l’ovatta della borghesia colta ebraica rischia di spaccarsi ma alla fine tiene: da vedere.

È una storia d’amore, ma è anche il racconto di una vacanza estiva, la scoperta di un diverso se stesso, l’utopia di un mondo più accogliente, la descrizione di una atmosfera. Attori più che buoni anche se per niente star affermate.

Ambientato nell’estate del 1983, nella campagna nei pressi di Crema,  il film racconta l’arrivo di un estraneo, il ricercatore universitario americano Oliver (Armie Hammer), all’interno di una comunità rilassata e vacanziera; tale presenza estranea offre a ognuno dei protagonisti l’occasione per scoprire o rivelare qualcosa di sé. È un’abitudine dei padroni di casa, il professor Perlman (Michael Stuhlbarg), professore universitario e archeologo, e sua moglie Annella (Amira Casar), invitare ogni estate un dottorando per poter lavorare tranquillamente, docente e allievo, in quella cornice di vacanza di campagna. Anche il figlio Elio (Timothée Chalamet), ragazzo di grande preparazione musicale e letteraria, si mette a disposizione dell’ospite insieme con amici e amiche che bazzicano la tenuta di campagna della famiglia.

La storia, sceneggiata da James Ivory a partire dal romanzo omonimo di André Aciman, continua con l’attrazione delle ragazze per il nuovo affascinante arrivato, l’irritazione di Elio per i suoi comportamenti fin troppo disinvolti, lo stallo dei genitori padroni di casa per una presenza esterna che intuiscono destinata ad accendere passioni. Poi il film segue i turbamenti di Elio alle prese con l’esplosione della sua sessualità, all’inizio per l’amica Marzia e poi per Oliver. E da qui la storia deflagra fino alla fine.

A parte una scena con una pesca matura che fa un po’ schifo, possiamo dire che Luca Guadagnino riesce a non scadere nella scabrosita’, anzi realizza un’opera abbastanza sobria. Proprio questa è parte della forza del film, nella voglia di mostrare dolcezza e non scandalo. Per questo il film va oltre la classica «storia d’amore», perché mescola le voglie del sesso con il piacere dell’estate, la scoperta del proprio desiderio con la sua accettazione. Gli zii che a tavola si accalorano per il governo Craxi e il pentapartito, le domestiche che parlano di Resistenza, la lettura del quotidiano “Le Monde” (in una famiglia italiana !) sono tutti momenti che vorrebbero introdurre una parallela visione sociale di quegli anni ma il film lascia che il mondo esterno non turbi un’estate che i suoi protagonisti non dimenticheranno mai.

Comunque, pur in presenza di una opera piu’ che buona e di un regista italiano in forte ascesa dopo anni di gavetta, è corretto affermare che se i film concorrenti all’Oscar erano quelli che erano, è giusto che “Chiamami col tuo nome” non l’abbia vinto.

Recensione “La forma dell’acqua”

C’è talmente tanta acqua in questo film che potrebbe essere il remake de “L’era glaciale” girato in epoca di effetto serra. Comunque meritato l’Oscar appena vinto come miglior film. E poi quello come miglior regista, in mezzo peraltro a 13 nomination. Una donna, muta, addetta alle pulizie in una struttura di spionaggio americano a Baltimora, scopre in un laboratorio una maxi creatura anfibia nascosta, la ama e se la porta a casa. Un film pseudo – horror con romantica love story di straordinaria potenza visionaria. Da vedere. Si resta incantati davanti a tanto amore per il cinema. Guillermo del Toro ama i mostri, ne ha sempre avuto una passione, per quelli del cinema e della letteratura, da tempo colleziona vecchi manifesti e statuette, come confessato pochi mesi fa a Venezia quando vinse anche quella Mostra con questo film, in cui ne fabbrica uno, di mostro, estremamente affascinante. Nel tempo ci sono state diverse variazioni sul tema della Bella e la Bestia, all’elenco mancava in effetti la creatura anfibia con le squame, che deve seguire dieta proteica, uova sode a gogò, manco fosse un culturista. Siamo nel 1962, piena Guerra fredda. Stati Uniti e Unione Sovietica cercano di prendere il sopravvento uno sull’altro in ogni ambito, chi manda la prima cagnetta nello spazio, chi il primo uomo. Quindi anche un mostro anfibio pescato in chissà quale fiume, che potrebbe nascondere segreti scientifici e potenziali applicazioni, può diventare oggetto di contesa, almeno da studiare segretamente. Infatti i sovietici, con le loro spie dentro il laboratorio, vorrebbero rubare l’umido cimelio. I “cattivi” tra gli americani, dopo avere torturato il mostro, studiato le sue funzioni vitali per scopi forse scientifici, sono pronti ad ammazzarlo.

Elisa la muta, come detto, è una fanciulla che fa le pulizie in questo lab di Baltimora. L’attrice è Sally Hawkins (era la sorella povera e provinciale di Cate Blanchett in “Blue Jasmine”). Accanto a lei lavora di straccio e scopa, e parla per due, per sé e per la muta, la linguacciuta Octavia Spencer. Succedono tante cose, la trama pare semplice, ma si resta avvinti dalla storia. I dettagli della stanza della ragazza solitaria, l’appartamento del vicino che fa il disegnatore, il cinema di periferia, sono squarci che descrivono l’America di semi-periferia anni ’60.

Guillermo del Toro svela un animo romantico al cubo. Sottotrame, metafore, morali si sprecano. Una fiaba, un po’ “La sirenetta”, un po’ horror. C’è sempre qualcuno, in qualche parte del mondo o di altri mondi, disposto ad amarti e ad essere amato. Al limite, occhio all’umidità.

Recensione “The Post”

Il vero protagonista di questo film è il giornale, il quotidiano, la stampa indipendente. Prima del Watergate, in ordine cronologico, altro brutto capitolo americano della politica della bugia, coi Pentangon Papers con cui quattro presidenti USA mentirono sul Vietnam. Ma al Washington Post c’era un’editrice troppo in gamba (Katharine Graham, interpretata da Meryl Streep che oramai non si può più definire soltanto immensa, è semplicemente fuori categoria) e un direttore altrettanto tosto (Ben Bradley, ottimo Tom Hanks nella parte) e così il regista Steven Spielberg può realizzare un altro ottimo film di matrice civile.

“The Post” racconta una storia nella storia: quella della stampa americana  che vuole essere libera di fare le proprie inchieste senza preoccuparsi degli interessi del potere, e quella di una donna che cerca la propria affermazione in un mondo di soli maschi. Con questo film Spielberg ricostruisce i giorni del 1971 in cui Katharine Graham si trovò a scegliere cosa fare per l’industria di famiglia, cioè la casa editrice che pubblicava il Washington Post, che lei si era trovata a dirigere dopo la morte del marito. Il nodo del contendere era il diritto o meno di pubblicare i cosiddetti Pentagon Papers, cioè il rapporto top secret di migliaia di pagine  che l’ex Segretario della Difesa Robert McNamara aveva fatto redigere per ricostruire la politica americana circa l’intervento militare in Vietnam, sulla quale i presidenti americani dell’epoca avevano occultato la verità, per nascondere la tragedia in cui si mandavano a morire migliaia di giovani. Questo materiale cartaceo viene fatto prima arrivare, parzialmente, al giornale rivale New York Times, innescando la gelosia professionale del direttore del Washington Post, Ben Bradlee, deciso a scovare l’intero rapporto per pubblicarlo. A questo punto il direttore è affiancato dalla apparentemente inesperta editrice; la chiave del film che rende ancora piu’ appassionante il racconto dell’inchiesta è il travaglio della signora che deve decidere che cosa fare e che cosa pubblicare. Grandi dubbi da parte sua, non solo perché la politica fa di tutto per ostacolare il lavoro dei giornalisti, ma perché la signora Graham si trova in una sorta di conflitto, interiore piu’ che di interessi, avendo da sempre frequentato i salotti della Washington bene, compresi presidenti, politici e lobby varie. Allora vediamo incontri riservati nella casa della Graham o negli uffici del giornale, nei quali la protagonist é dapprima titubante, poi sempre più decisa e coinvolta. Come detto, Meryl Streep è grandissima nel rappresentare i dubbi del suo personaggio, fino alla apoteosi finale, quando tutti le riconosceranno quella importanza e potere decisionale che per una donna, all’epoca, non era cosa così scontata. Grande anche Tom Hanks, che interpreta il ruolo di un giornalista-top che di fatto prepara il giornale a quello che sarà il successivo scoop del Washington Post, l’affare Watergate.

Dicevamo, protagonista il giornale. Bellissime le scene in cui si vede l’intera catena di fabbricazione di un quotidiano all’alba degli anni ’70: le macchine per scrivere, i telefoni a gettone, le linotype con il piombo fuso per stampare i caratteri. Non c’erano telefoni cellulari, niente WhatsApp, niente siti on-line e rassegne stampa su Internet. Si vede quindi il direttore che aspetta l’alba davanti a un’edicola per potere leggere uno scoop sul giornale rivale. E quando la Corte Suprema emette la sentenza che permette al giornale di pubblicare i Pentagon Papers, niente diretta SKY, l’unico modo di sapere che cosa sta succedendo è un cronista sul posto che telefona in redazione, e ripete la celebre frase della sentenza: «La stampa è al servizio di chi è governato, non di chi governa». Potremmo dire che Spielberg insiste tanto su tutti questi particolari proprio per fare della stampa di un quotidiano il vero protagonista del film, come detto all’inizio. Bella la scena in cui migliaia di copie del Washington Post fresche di stampa, e di scoop, si innalzano verso il soffitto sui nastri trasportatori, destinate ai camion pronti a partire verso le edicole.

Una emozione grande del film è quando alla fine di un braccio di ferro carico di pathos, il direttore Bradlee ottiene il via libera dalla proprietaria / editrice e telefona in tipografia per far partire la rotativa; a quell punto tutte le scrivanie, le sedie e i barattoli di penne degli uffici redazionali tremano, perché così era allora, si stampava nei sotterranei facendo letteralmente vibrare le redazioni, con macchinari che occupavano interi stanzoni e facevano un rumore infernale. Oggi nelle redazioni è tutto digitale, più efficiente ma meno romantico, si è passati dal piombo fuso ai bit, dalle veline ai tweet.

 

 

Recensione “L’ora piu’ buia”

Un altro filmone. Nel pieno della seconda Guerra mondiale, il primo ministro inglese Winston Churchill chiama la nazione intera alla solidarietà, riesce a salvare i soldati inglese bloccati a Dunkerque, e alla fine é un trionfo. Alcuni momenti cult (il viaggio nel metro’ con annesso bagno di folla) nella grande prova dell’attore Gary Oldman.

Una lezione anche di storia, non c’é solo History Channel per questo, e di amor patrio. Parole pubbliche in Parlamento, oppure biascicate in privato da Winston Churchill, primo ministro appena eletto a cui subito i nemici misurano il tasso alcolico: whiskey a colazione, una bottiglia di champagne a pranzo e una a cena, brandy per finire la serata. Poi, nei discorsi radiofonici che inizialmente tanto spaventavano il sovrano Re Giorgio VI, Churchill ritrovava la grinta oltre che il senso dello stato e delle imprese impossibili. Indeciso se rischiare l’olocausto dell’esercito inglese accerchiato a Dunkerque per perseguire il dovere della resistenza oppure dichiararsi perdenti, arrendersi e accettare di trattare una “pace” con Hitler. Dall’altra parte del fronte nemico infatti c’erano i nazisti, con cui non era il caso di scherzare ma neanche di trattare una pace umiliante (come erano tentati di fare anche i francesi). E 300 mila soldati dell’esercito britannico, come detto, erano prigionieri a Dunkerque. Il regista Joe Wright ambienta a Londra, nelle stanze del potere e in quelle di casa Churchill, questa narrazione storica dei venti giorni che decisero le sorti dell’Inghilterra e di conseguenza delle democrazie occidentali: vediamo Churchill dettare la corrispondenza dal letto, mentre fa una colazione che solo a vederla, allo spettatore in sala si alza il colesterolo. Lo vediamo in vestaglia, mentre battibecca con la moglie  Clementine, l’attrice Kristin Scott Thomas. Vediamo il primo ministro  con i suoi sigari e i suoi scatti di rabbia, e il segno della vittoria fatto con indice e medio della mano, anche in modo sbagliato. Irriconoscibile per il trucco, Gary Oldman é perfetto nella parte e calato nel personaggio, candidato all’Oscar come migliore attore protagonista (e statuetta praticamente gia’ ipotecata).

“Una nazione che si arrende non si riprenderà mai, una nazione che non si arrende, anche se perde, prima o poi si rialzerà. Noi non ci arrenderemo mai.” Cosi’ disse Churchill al parlamento inglese.

 

Recensione “Made in Italy”

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (Cesare Pavese)

Radio Freccia 20 anni dopo. Stavolta Stefano Accorsi alle prese con la sua personale midlife crisis, di amore e di lavoro, nella vita di provincia della pianura padana. Ligabue alla sua terza prova dietro la macchina da presa torna regista ispirato (si fa per dire), film discreto ma che non decolla. Film di cui il regista cura, ovviamente, anche la colonna sonora che segue la traccia dell’omonimo album del 2016, composto da 14 brani.

Al centro della storia il personaggio di Riko (Accorsi), operaio della bassa padana, in crisi. Il suo rapporto con la compagna Sara (Kasia Smutniak) è sempre più difficile, non senza reciproci tradimenti, nonostante l’amore e un figlio, Pietro, ormai quasi ventenne. Del lavoro in un’azienda produttrice di mortadelle, il Nostro non è mai stato entusiasta. A stento riesce a pagare le spese della casa di famiglia, che forse dovrà vendere. Come se non bastasse, l’azienda sta tagliando  il personale e dopo trent’anni di sevizio Riko rischia di essere licenziato. Di certo può contare sui suoi amici, Carnevale, Max, Matteo e gli altri, e loro su di lui. Ma quando anche le ultime certezze si sgretolano, Riko può crollare o mettere in atto quel cambiamento che aspetta da anni.

 

 

 

Recensione “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”

Un gran bel film, diverso. Un film fuori dai soliti schemi, una visione eccentrica dell’America e delle vicende del mondo, in stile fratelli Coen, un cinema di opposizione. Non perdetevelo, questo mix di noir e poliziesco, nel profondo Missouri dove vige il razzismo e un assassinio con stupro rimane impunito. Sceneggiatura, cast e regia da Oscar, cinema allo stato puro.
“Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è un film palpitante e inquietante, per immagini, passione, diversita’. Il regista è il britannico Martin McDonagh, al suo terzo film. Eccellente la prova dell’attrice Frances McDormand (guarda caso, nella vita reale moglie dal 1984 di uno dei fratelloni Coen, Joel), al punto piu’ alto di una carriera già di elevato profilo. La sua interpretazione di Mildred, madre proletaria, addolorata ma non in cerca di pietà, che non trova pace dopo il brutale omicidio della figlia, con annessi stupro e incendio del cadavere, le è già valsa il Golden Globe (quattro in totale quelli destinati a questo film), e la nomination per l’Oscar del prossimo 4 marzo nella sezione migliore attrice protagonista. Nel film, la donna chiede giustizia per la figlia, di fronte alle inefficienze della polizia locale, che invece applica un losco quieto vivere: pigra, forse coinvolta. Non c’è il colpevole, non c’è un sospetto, non c’è una pista da seguire. La mamma affitta allora tre grandi cartelloni pubblicitari e li piazza alle porte di Ebbing, cittadina nello stato del Missouri, cercando di scuotere le coscienze dormienti dello sceriffo (attore Woody Harrelson) e degli agenti del suo ufficio, alcuni anche violenti e razzisti. La presenza dei tre mega cartelloni crea clamore in città e l’indagine si riapre con risultati sorprendenti.
Il film è una specie di commedia nerissima, commedia in quanto c’è anche qua e la’ un pizzico di ironia che riesce a suscitare qualche risata tra il pubblico, pur nel bel mezzo di un drammone. Ma soprattutto “Tre manifesti ecc…” ha un valore civile altissimo. E’ un elogio della denuncia, un grido di vendetta contro i misteri irrisolti che purtroppo incancreniscono la vita sociale, una richiesta di giustizia e legalità troppo spesso negate. Un ritratto dell’America profonda, quella interna, fuori dal circuito delle citta’ “progressiste” delle due coste est e ovest (New York, Boston, Miami, e quelle della California), la America che ha un grande feeling con le armi, nasconde i delitti e insabbia la verità. E per una volta non c’è correttezza politica (alè).

 

 

Una lettera dal Corriere

Oggi sul Corriere della Sera, nella sezione / pagina lettere “Lo dico al Corriere”, e’ stata pubblicata una bellissima lettera su argomento cinema, scritta dalla lettrice Vittoria Paolini. Questo blog condivide in pieno e si congratula con l’autrice, sperando che anche lei diventi una lettrice di questo blog. Questa e’ la lettera, il cui titolo e’ “Andare al cinema al tempo dei cellulari”.

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Mi è sempre piaciuto molto andare al cinema, ma ultimamente è divenuto un piacere maggiore e mi chiedevo perché. Credo che questa nuova magia derivi dal fatto che ormai è rimasto uno dei pochi luoghi dove non ci sono cellulari accesi. Resta ancora un luogo dove riusciamo a staccare i contatti con la realtà e sogniamo. Riusciamo a godere dell’atmosfera surreale, quando le luci si spengono e sprofondiamo nelle poltrone, quando rimaniamo incantati dalle immagini e dai suoni e ci affezioniamo a un personaggio, assegnandogli un odore che in realtà è il profumo emanato da un nostro vicino. In quest’era dell’immediatezza, dell’apparenza, dei «like», in cui si fanno e si mangiano cose per fotografarle, il cinema resta un oasi felice, dove si va per godere di una cosa fine a se stessa e non per pubblicarla sui social. La mia paura è che una cosa ormai così rara sia destinata a scomparire: tutti siamo troppo abituati al rumore, alla connessione, alla continua reperibilità, ai commenti, scena per scena della nostra vita. Voglio comunque continuare a credere nella bellezza del cinema e a sperare che a vincere sarà il silenzio, la lentezza e il buio.
Vittoria Paolini